Le regole sono ciò a cui gli artisti e i talenti creativi devono reagire perché ciò che è memorabile ed unico non può nascere mai da una formula precostituita. Infrangere le regole giuste vuol dire innovazione, creazione e ricerca di nuovi paradigmi. Stefano Seletti, classe 1972, visionario imprenditore mantovano del omonimo brand di arredo e design, le regole dell’industria ha iniziato a sovvertirle sin da giovane quando seguendo il padre durante i suoi viaggi in Asia ha iniziato ad immaginare un futuro per la sua azienda dove i colori e gli eccessi della Pop Art si incontrano per sposarsi con il design. Così è nata la nuova immagine del marchio Seletti, brand italiano riconosciuto in tutto il mondo per il suo mood ironico ed irriverente capace di coniugare oggetti ed icone di uso quotidiano con uno stile proteso verso un sentimento rivoluzionario nei confronti della tradizione con l’obbiettivo democratico di proporre elementi di arte contemporanea accessibili a tutti. A sottoscrivere questo impegno ci sono artisti come Maurizio Cattelan, Pierpaolo Ferrari, Studio Job, Antonio Aricò e Gio Tirotto ma anche marchi prestigiosi come Diesel per una capsule collection cui stile industriale, rock & roll oscuro e adrenalinico si mescolano insieme per una nuova concezione del design. Noi di Domanipress abbiamo avuto il piacere di ospitare nel nostro Salotto Digitale Stefano Seletti per parlare con lui del valore della creatività come strumento per cambiare il mondo.
Partiamo dall’origine: l’azienda Seletti è stata fondata da tuo padre Romano Seletti, definito oggi come un Marco Polo dell’imprenditoria per la sua visione pioneristica che aveva individuato le potenzialità del’export cinese quando ancora nessuno se ne interessava…
«Si, mio padre è stato decisamente un precursore dei tempi, ha valicato il confine cinese pochi anni dopo la caduta dell’impero di Tse-tung in piena rivoluzione culturale, quando per ottenere il permesso di entrare in quel territorio era complicato. Bisognava atterrare ad Hong Kong e poi prendere un treno percorrendo un antico ponte di legno a piedi. Era tutto molto complicato ed incerto eppure lui è riuscito a trovare in quei luoghi l’unicità di una produzione artigianale che si basava sull arts and crafts e su oggetti di uso quotidiano. Il vero punto di forza di mio padre è stato riconoscere la forza della manodopera e dell’operosità di quel paese prima degli altri…In breve tempo l’azienda ha iniziato ad importare i cestini porta pane di bambù, i sottopentola di paglia, gli strofinacci per il pavimento a nido d’ape e le palline da pingpong…tutti oggetti che le nostre madri avevano in casa».
Ben presto anche tu hai cominciato a seguirlo nei suoi viaggi visionari in giro per il mondo; come ti ha cambiato questa esperienza?
«Ho iniziato a seguire mio padre all’età di diciassette anni. Quando ho varcato le soglie del mio piccolo paese in provincia di Mantova per esplorare la Cina mi si è aperto uno scenario culturale completamente differente dal nostro. Era il mio ultimo anno di scuola superiore e mi mancavano pochi giorni alla maturità in ragioneria ma decisi di dedicare quaranta giorni a questa prima esperienza lavorativa e di partire. Posso dirti che per me fu una rivelazione perchè mi sono interfacciato con un modello produttivo nuovo. Intanto in quel periodo nasceva in italia la grande distribuzione ed iniziavano ad aprire i primi ipermercati che hanno cambiato radicalmente il modo di acquistare i prodotti. Si iniziava ad affiancare alla vendita assistita del mercato rionale raccontato dal singolo venditore un modello nuovo basato su un prodotto che doveva comunicare e presentarsi in maniera autonoma. Io mi sono occupato di questa nuova parte che all’inizio era marginale ma che poi è diventato il vero core business».
Con questa nuova consapevolezza acquisita sul campo hai iniziato a trasformare l’azienda di famiglia…
«Dopo la maturità mi sono iscritto all’università ma allo studio sui libri ho preferito viaggiare in giro per il mondo. Ho iniziato ad esplorare l’estremo oriente e a scoprire oltre alla Cina territori come l’India e l’Indonesia. In questi luoghi ho iniziato a esaminare i modelli produttivi e a sperimentare iniziando a trasformare i prodotti. Il mio rimpianto è quello di non avere una formazione da designer che sicuramente mi avrebbe aiutato ma nonostante questo ho cercato di utilizzare la creatività utilizzando le suggestioni e le ispirazioni ricevuti durante i miei viaggi. Mi piace pensare che anch’io sono cresciuto di pari passo proprio come la Cina che è passata da una produzione artigianale di pochi pezzi ad una industriale ampliando l’offerta dei settori merceologici che negli anni ottanta era molto più ridotta rispetto ad oggi. Penso ad esempio all’alta tecnologia che era del tutto assente…».
Il marchio Seletti è diventati un punto di riferimento per molti artisti della scena contemporanea come Maurizio Cattelan, Studio Job e il fotografo Pierpaolo Ferrari. Come sei riuscito ad instaurare un dialogo creativo con loro?
«L’incontro con gli artisti fa parte della terza fase della storia dell’azienda. Quando la grande distribuzione ha iniziato a proporre sul mercato i nostri prodotti noi siamo stati usati come tester. Quando un oggetto funzionava e vendeva era facile che poi in maniera autonoma si creasse un meccanismo di import autonomo. Ho subito ravvisato la necessità di uscire da un sistema che non mi garantiva più un futuro ed ho iniziato a muovere dei passi da solo nel mondo del design».
Ricordi qual’è stata la tua prima creazione creativa?
«Uno dei primi esperimenti fu quello delle tazzine che in Cina dipingevano tipicamente con dei paesaggi bucolici. Ho pensato che anche un oggetto di uso comune così semplice con una nuova veste e dei dettagli fluo potesse dialogare con il mondo del pop e della moda, diventando qualcosa di interessante a livello estetico ed emozionale. Da qui è iniziato un approccio nuovo alla creatività, ho iniziato a frequentare il Salone de Mobile di Milano ed interessarmi di design. Fondamentale per la mia crescita è stato il mio ufficio stampa Paride Vitale che mi ha connesso a tante personalità diverse e ai designer più famosi con cui abbiamo sviluppato idee innovative per il mercato italiano ed internazionale».
A proposito di mercato internazionale e di partenze dal basso è vero che per le tue prime esposizioni per il Salone del Mobile agli executive hotel preferivi l’ostello?
«Si, è verissimo alloggiavo all’ “Ostello Bello”, le prime nostre esposizioni al Salone del Mobile erano molto artigianali e il budget era molto risicato. Il fatturato della Seletti era legato alla grande distribuzione, il mercato parallelo che cercavo di costruire era solo un cinque per cento del totale e questo dall’inizio non mi ha concesso degli investimenti iniziali importanti. Paride aveva il suo ufficio vicino all’ostello che abbiamo trasformato in una base operativa colorata e multiculturale. I primi clienti li abbiamo intercettati in quel luogo a budget zero, ci siamo impegnati nel ricercare un approccio lavorativo dalla creazione alla promozione diverso dal solito, capace di appartenerci.
Oggi molti degli oggetti Seletti tra cui il celebre vaso “Love in bloom” e la linea “Estetico quotidiano” sono diventati dei best seller famosi in tutto il mondo. Com’è stato sviluppato il meccanismo di brainstorming per la loro progettazione?
«Per noi è stata una sfida. La creatività e la totale libertà d’espressione è l’unica arma che può utilizzare un’azienda che non ha una tradizione, un origine produttiva classica e un design come base di partenza. Nella nostra prima linea di art de la table “Estetico quotidiano” abbiamo giocato con i materiali e le contrapposizioni rispetto alla realtà proponendo qualcosa di rivoluzionario. Puoi trovare degli oggetti che prendono ispirazione dal mondo del usa e getta realizzati con materiali più raffinati come la porcellana: la bottiglia di plastica, la tazzina, il vassoio di cartone sono stati riproposti in una nuova forma materica ironica e divertente. Seletti non produceva storicamente ceramiche come brand altisonanti quali le aziende portoghesi o Richard Ginori, per proporre qualcosa di innovativo l’unica strada percorribile era quella di pensare gli oggetti in maniera differente spostando il valore dalla tradizione e dell’artigianalità verso un nuovo modo di concepire il design. Questo cambio di prospettiva ha portato l’azienda verso una clientela eterogenea. La nostra linea è stata acquistata dai vari concept store in giro per il mondo perché era l’unica gamma ad essere innovativa, diversa dai soliti cliché e distante dalle classiche liste nozze presenti in altri negozi».
Per l’indoor lighting invece avete proposto delle figure animali spaziando dalla monkey lamp fino al famoso topo con la lampadina a forma di cuore, una scelta particolare e provocatoria…
«Si anche per l’illuminazione abbiamo sovvertito le regole. Non potevo paragonarmi a realtà come Artemide, Flos o Foscarini, solo per citare tre giganti italiani e non volevo competere giocando sul loro campo. Una scimmia che tiene in mano una lampadina e quanto di più sbagliato dal punto di vista del design perché il supporto ad esempio è visibile, invece noi siamo andati contro la tradizione, abbiamo imposto una chiave di lettura differente proponendoci ad un mercato che all’inizio ci ha guardato in maniera scettica ma che poi, a seguito di un riscontro di pubblico importante, ha accolto il nostro cambiamento condividendo la nostra emozionalità e comprendendo le potenzialità del marchio».
A proposito di illuminazione non si può non citare la lampada (r)evolution o gli anagrammi luminosi dove si gioca in un dissacrante equilibrio tra significato e significante. Personalmente qual è il tuo rapporto con le parole?
«Il mio è un rapporto figurativo, non sono molto bravo sui testi…quando ho necessità di esprimere un concetto mi trovo a mio agio nel mondo delle forme. Nico Vascellari per Seletti con i suoi vari “Dream” luminosi mi ha subito colpito per le associazioni di parole che è riuscito a comporre e che oggi fanno parte del Dna dell’azienda. Sono anche molto legato al nostro payoff (R)evolution is the only solution, una scritta sul muro che ho trovato durante il Fuorisalone in Via Tortona a Milano e che ho subito adottato come filosofia e trasformato in forma di lampada luminosa. Qualche anno dopo ho avuto anche modo di conoscere l’autrice, una studentessa polacca in erasmus in Italia che mi ha confessato di aver scritto quella parola sul muro che oggi è diventata il mio punto di riferimento personale».
Tra tutte c’è una parola che ti caratterizza maggiormente?
«Sicuramente la parola (R)evolution con la R rigorosamente tra parentesi. Credo che oggi l’evoluzione è ciò che mi appartiene, cerco di essere contemporaneo nelle mie scelte, non solo aziendali. Mi inorgoglisce che Seletti sia una delle poche aziende di design che produce complementi di arredo che abbraccia un bacino d’utenza giovane dai diciotto ai venticinque anni. Ho due figlie e due nipoti appartenenti alla generazione Z e mi piace osservarli per capire il loro universo. Anche il loro modo di sedersi su un divano o l’emozionarsi davanti ad un oggetto è differente rispetto alle generazioni precedenti. Mi piace pensare che una lampada, una tazza un divano o un cuscino possano diventare oggetto di una discussione capace di stimolare curiosità ed interesse».
Come sei riuscito a sviluppare per ogni complemento d’arredo un’identità forte ed indipendente?
«Nel mio showroom di Viadana , che invito a visitare, mi piace presentare ogni prodotto nuovo all’interno di una cassa bianca. Se il prodotto riesce a brillare di luce propria e trasmette la sua forza anche se isolato dal resto allora ha senso per la nostra collezione. Se prendi ad esempio il modello IKEA nelle loro esposizione ogni oggetto è abbinato ad un altro. Ricordo quando da ragazzino per la prima volta vidi un esposizione con il letto a castello e la scrivania posta sotto…convinsi con le lacrime mia madre a comprare quel letto ma una volta montato a casa non viveva della stessa magia perché mancavano i complementi abbinati in quell’esposizione come la luce, il tappetino i quadri e tutto ciò che faceva illuminare quell’esposizione. Con Seletti facciamo l’opposto, ogni singolo oggetto è pensato per vivere e trasmettere delle emozioni in maniera indipendente per questo ognuno ha una sua identità».
L’identità di un creator si può descrivere soprattutto dalla sua scrivania da lavoro…la tua come l’hai organizzata?
«La mia scrivania è estremamente disordinata…mi trovo a mio agio in un contesto un pò irregolare. Anche prima di commercializzare un oggetto mi piace viverlo davanti a me, nella mia postazione di lavoro per capire cosa riesce a comunicare e le vibrazioni che trasmette al mio stato d’animo».
Lo spazio abitativo ha assunto una dimensione centrale nella vita quotidiana e l’ascesa dello smart working ha richiesto di integrare la casa all’ufficio ridisegnando gli spazi e privilegiando un arredo comodo e pratico ma anche emozionale. L’approccio dell’azienda come si è evoluto rispetto a questo nuovo trend?
«Per le aziende che producono oggetti di decorazione il lockdown è stato un momento importante per ripensare le proprie linee di produzione ed ha aperto gli occhi a molte persone sul proprio mondo interiore e sulla propria casa intesa come trasposizione del proprio essere. In questo siamo stati antesignani, abbiamo sempre ritenuto che ogni oggetto avesse un valore emozionale prima ancora che estetico e funzionale. Ci piace creare oggetti che possano illuminare la casa in maniera ironica e divertente per alleggerire il peso dello stress quotidiano. Molti clienti ci scrivono che hanno dato un nome alla loro Monkey lamp e che la salutano una volta varcata la porta e questo mi riempie di gioia».
L’interesse crescente per il tema della sostenibilità ha rafforzato la domanda da parte dei consumatori di brand socialmente attivi capaci di condividere i loro valori i prodotti rispettosi dell’ambiente…Seletti come intende il rapporto con l’ambiente?
«La collaborazione con Diesel e altri marchi internazionali ci ha portato ad una consapevolezza attiva sul tema della sostenibilità e anche su questo aspetto cerchiamo di migliorare costantemente i nostri standard. Spesso si tende a demonizzare la produzione cinese, invece il governo in quei luoghi si sta adoperando molto in termini di sostenibilità e in maniera anche più rapida e sostanziale rispetto all’Italia con poche chiacchiere e molti fatti. Il novanta percento dei nostri fornitori ha subito dei test legati a questo aspetto anche molto stringenti…I cinesi hanno una capacità di crescita dal punto di vista ecologico molto più efficace rispetto all’occidente».
Il marchio Seletti è diventato riconoscibile in tutto il modo, ad oggi sono presenti flagship store nelle più grandi capitali internazionali e questo ti ha portato a viaggiare per mete lontane. Tra tutti qual è il luogo dove ti senti davvero a casa?
«Sono legato a diverse città in giro per il mondo ma a Cicognara di Viadana piccolo paesino in provincia di Mantova è l’unico posto dove mi sento a casa, qui è dove sono nato e cresciuto e tutt’ora ci abito e lavoro. Vivo una vita serena, in provincia, sono sposato da quasi venticinque anni, ho due figlie un cane e la mamma che mi abita accanto anche l’azienda è a conduzione quasi familiare con trenta dipendenti e ci piace essere famosi per il nostro rapporto fatturato/casino. Qui sento di avere le radici più profonde, è la mia ricarica naturale e per questo ci vivo e ci torno volentieri. Mia moglie invece è brasiliana, nata a San Paolo, ed insieme abbiamo una grande passione per il sud di Bahia dove ci piace trascorrere l’inverno mentre d’estate preferisco l’isola di Pantelleria con cui ho un rapporto particolare».
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Stefano Seletti quali sono le tue speranze e le tue paure?
«Sono ottimista per il Domani mi auguro un’ evoluzione positiva oltre che una rivoluzione…è quello che ci meritiamo tutti»
Intervista Esclusiva a cura di Simone Intermite