É una vita dedicata alla radio e all’urgenza di comunicare quella di Linus, al secolo Pasquale Di Molfetta, uno dei conduttori radiofonici più amati di tutti i tempi e direttore artistico dell’intramontabile Radio Deejay, la “one nation one station” d’Italia simbolo di intere generazioni, che quest’anno ha recentemente spento quaranta candeline riuscendo ad offrire agli ascoltatori un’offerta ricca di musica, intrattenimento e divertimento senza eguali, creando un brand di riferimento riconoscibile e familiare che prevarica il tempo e le mode. Linus approdato negli studi di via Massena a Milano nel 1984 è riuscito ad inanellare una serie di successi sia come director che come conduttore a partire dal morning show Deejay Chiama Italia, il programma radiofonico del mattino condotto in coppia con Nicola Savino attuando una serie di scelte azzeccate e rivoluzionarie come quella di portare per la prima volta la radio in tv anticipando la mission crossmediale moderna e imprimendo un nuovo standard di riferimento. Ecletico osservatore del presente ed acuto precursore dei tempi ad oggi Linus, responsabile del settore radiofonico del Gruppo GEDI che oltre a Radio Deejay comprende anche Radio Capital e m20, forte della suo know-how non ha disdegnato incursioni anche in campi paralleli alla radio come quello della letteratura pubblicando libri che hanno accolto il favore del pubblico. Il suo ultimo romanzo edito da Mondadori intitolato “Fino a quando” ipotizza il suo ultimo giorno dietro il microfono come punto di partenza per raccontare una storia di successo che lega le ambizioni di un ragazzo della provincia milanese partito da Paderno Dugnano a quella della radio più influente d’Italia. Noi di Domanipress abbiamo avuto il piacere di ospitare Linus nel nostro Salotto Digitale, a poche ore dalla giornata celebrativa Party Like Deejay, in questa Video Intervista Esclusiva per fare il bilancio dei primi quarant’anni di Radio Deejay e scoprire retroscena inediti del suo successo tra musica, emozioni e passione.
Quest’anno Radio Deejay spegne quaranta candeline e il trend di ascolti è in continuo aumento; come siete riusciti a non cedere alle insidie del tempo che passa?
«É difficile inventarsi qualcosa che riesce ad accogliere subito tanta fortuna e che intercetta il favore del pubblico, noi ne abbiamo avuta tanta negli anni passati, ma è ancora più complesso mantenere questa posizione. Siamo tutti orgogliosi di questi primi quarant’anni di Radio Dejaay, siamo in procinto di organizzare una grande festa, un occasione di gioia e condivisione, in un momento storico come quello presente di grande euforia. Il pubblico è finalmente tornato a vivere gli eventi dal vivo con il sorriso…dopo due anni di pandemia ne avevamo tutti un gran bisogno».
Ricordi qual è stato il tuo primo giorno negli studi di via Massena?
«Certo, non potrei mai dimenticarlo ma bisogna fare prima un passo indietro: Radio Deejay è nata nel ’82 dalle ceneri di una piccola radio locale dove lavoravo insieme ad Albertino, l’Olandese Volante e Marco Galli. Il primo a costruire la nuova identità della stazione è stato Claudio Cecchetto che dopo aver acquistato la frequenza le cambia nome ed identità licenziando tutti gli speaker precedenti e attuando una tabula rasa del passato…Dopo due anni mi ha richiamato e ricordo che prima di me andava in onda Jerry Scotti, con cui avevo già iniziato a fare radio qualche anno prima, eravamo grandi amici e il mio debutto a Deejay lo condivido con lui».
Jerry Scotti è ancora oggi uno dei presentatori tra i più amati della tv, la sua attitudine rassicurante e familiare si è affinata anche grazie alla gavetta a Radio Deejay…Com’era il vostro rapporto?
«Jerry anche da giovane ha sempre avuto un’attitudine professionale ed adulta, si è sempre venduto per essere più navigato di quanto in realtà non fosse. Ricordo che quando esordimmo lui con la voce impostata mi disse in diretta: “Allora che effetto ti fa andare in onda accanto ad un monumento della radiofonia italiana?”. Questo è stato il mio reale battesimo. Dopo dieci anni Claudio Cecchetto mi ha passato il testimone di direttore artistico e mi sono ritrovato, con un po’ di incoscienza, a portare avanti la sua eredità e oggi a ventotto anni di distanza stiamo parlando della storia che Radio Deejay è riuscita ad imprimere nel panorama dei network radiofonici direi che posso ritenermi soddisfatto».
Radio Deejay è un brand riconoscibile, anche visivamente, ed oltre al merchandising e alle attività collaterali legate al marchio l’emittente è diventata un punto di riferimento per intere generazioni…
«Questa è la mia più grande rivincita. Il mio lavoro alla fine dei conti è proprio quello di cercare di dare alla radio una sua coerenza, uno stile riconoscibile e di creare un ambiente dinamico e familiare».
Riuscire a trovare un punto di unione tra personalità differenti come Alessandro Cattelan, La Pina, Il Trio Medusa, Gianluca Gazzoli e Nicola Savino non deve essere un impresa semplice. Cosa vi accomuna?
«Siamo tutti molto diversi sia nel carattere che nello stile radiofonico ma perseguiamo tutti lo stesso obbiettivo, quello di realizzare una programmazione ironica e divertente che sappia anche approfondire i temi dell’attualità quando il pubblico lo chiede ma riesca anche ad essere leggera quando la giornata lo richiede. Questo è il filo rosso che ha unito i personaggi nel tempo».
Molti di questi conduttori dopo la gavetta a Radio Deejay sono volati verso altri universi dalla televisione alla letteratura…Come si riconoscono e coltivano i talenti?
«Molti personaggi come Nicola Savino, Il Trio Medusa e La Pina hanno iniziato a trasmettere quando erano poco più che vent’enni. Attraverso l’esperienza in radio e al contatto con “i più grandi” hanno saputo maturare una loro personalità che si è incastrata con il modo di essere di Radio Deejay…Mi piace pensare che in questo la radio sia come una piccola Hogwarts dove i maghi imparano il mestiere ma anche ad essere parte di una comunità di cui andare orgogliosi per tutta la vita».
Abbiamo ospitato qualche tempo fa nel Salotto Digitale di Domanipress Claudio Cecchetto ed insieme abbiamo scherzato sulle note di “Video killed the radio star” dei The Buggles. A ben guardare la storia di Radio Deejay però è avvenuto il procedimento inverso perché con il format Deejay Television su Italia uno siete stati i primi a far dialogare due tipi di media distanti tra di loro. Come siete riusciti a dominare la televisione?
«Negli anni ’80 Radio Deejay è diventato un fenomeno di cultura pop grazie a Deejay Television che andava in onda su Italia uno, era un appuntamento fisso per tutti i ragazzini nati negli anni settanta che avevano dai tredici ai vent’anni. Quando la Radio approdava oltre i confini della Lombardia e del nord Italia il nostro marchio era già pienamente riconosciuto. La televisione è stato il viatico per far diventare importante la radio. Essendo la nostra emittente incentrata sulla personalità dei DJ è stato facile riuscire a far migrare giusto mood anche sul piccolo schermo».
Tv e radio, anche se in passato storicamente in conflitto, sono due universi comunicanti e non è raro che i grandi talenti della tv abbiano un trascorso radiofonico…
«Se ci pensi la televisione non ha uno spazio per la gavetta, a differenza della radio, quindi deve pescare le competenze da altri settori. Chi fa tv solitamente è stato prima comico, cantante, ballerino o ha fatto radio. Nomi come Renzo Arbore, Maurizio Costanzo, Piero Chiambretti, Mike Bongiorno e Corrado hanno incominciato la loro carriera proprio negli studi radiofonici e a ben guardare questo è accaduto anche da noi con Fiorello, Jovanotti, Amadeus, Nicola Savino e Gabriele Corsi…».
Tu invece non hai mai ceduto alle proposte della tv e sei rimasto sempre fedele a Radio Deejay…Hai mai pensato di abbandonare la nave per dedicarti ad altre attività?
«All’inizio degli anni novanta mi sono trovato difronte ad un bivio. Potevo continuare a fare radio o seguire la strada della tv a tempo pieno che in realtà già realizzavo con Deejay Television. Poi la vita ha scelto per me, essere nominato direttore non mi ha dato il tempo e la volontà di seguire altre strade. Per giungere ai grandi risultati a cui sono arrivati i miei amici devi prima passare attraverso una trafila di programmi tv che non sempre ti corrispondono appieno e io non ho voluto correre questo rischio. Ero e sono sazio e viziato da quello che faccio in radio».
Il tuo programma Deejay chiama Italia è in onda dal 1991 e durante tutti questi anni ha potuto vantare ospiti illustri anche difficili da reperire o che spesso si raccontano poco Come riesci a mettere tutti a loro agio?
«Ho imparato che all’ospite piace sempre sapere che chi lo intervista si è informato in maniera approfondita sul suo percorso umano e professionale. Ciò che di peggiore ti può capitare è quello di condurre un’intervista wikipedia dove le domande sono quelle delle prime tre righe della pagina enciclopedica. Parlare dei temi ricorrenti può andar bene come primo approccio ma poi bisogna approfondire ed andare oltre. Quando l’intervistato comprende che ti sei preparato per accoglierlo è già più semplice riuscire a fargli raccontare qualcosa di inedito di se stesso. Accanto a questo c’è una componente fisica, sia Nicola che io siamo due persone molto empatiche ed abbiamo ruoli differenti. Nicola è quello che scherza con gli ospiti e sdrammatizza io sono quello più secchione che studia e chiede dettagli approfonditi».
Alcuni artisti prima di presentare i loro progetti appaiono visibilmente emozionati…
«Si, specialmente per i cantanti essere nostri ospiti è una specie di medaglia all’onore da appuntare sul petto e questo mi riempie di orgoglio. Spesso i discografici ci riferiscono che i cantanti giovani, ma anche quelli più affermati, nel momento in cui arrivano nella sala d’aspetto della nostra intervista sono a volte agitati perché percepiscono una forte responsabilità e vogliono poter esprimere il meglio di se stessi. Fortunatamente poi quando entrano on air io e Nicola facciamo di tutto per mettere l’artista a proprio agio».
Realizzando anch’io interviste ed essendo tu un maestro del settore qual è il miglior consiglio che potresti darmi?
«L’augurio che ti faccio e di intervistare molti artisti internazionali, specialmente americani, perché loro quando dialogano con i giornalisti solitamente si mettono a completa disposizione, sono esercitati per farlo, lo showbitz d’oltre oceano tiene molto a questi momenti che diventano essenziali per la costruzione di un personaggio. Magari qualche volta esagerano e non sono totalmente sinceri ma sicuramente è piacevole ritrovare delle conversazioni che portano un facile coinvolgimento. Quando mi capitava le prime volte non mi sembrava vero di avere un accesso così diretto, gli italiani sono sicuramente più complicati».
Te lo chiedo senza filtri: qual è stato l’artista più complicato da intervistare?
«Tra tutti Ligabue, lui però è consapevole di essere un po’ “difficile” da intervistare ma noi a Radio Deejay cerchiamo di abbattere il muro per sdrammatizzare; credo che ora Luciano abbia fiducia di me dato che l’ho ospitato circa trenta volte, magari sarà anche stufo di vedermi. Lo stesso potrei dire di Vasco Rossi che è stato ospite da noi molte volte…».
Nonostante all’apparenza possa risultare estremamente riservato non hai mai nascosto alcuni aspetti della tua vita privata raccontandoli con sincerità e scrivendo libri. Nell’ultimo romanzo “Fino a quando” immagini il tuo ultimo giorno in radio e cogli l’occasione per esaminarti in maniera critica. Qual è il tuo peggior difetto?
«Forse il mio principale difetto è anche il mio principale pregio. Mi porto sempre un’eterna insoddisfazione che mi rovina l’esistenza. Penso sempre che potrei fare di meglio ed impegnarmi di più pur dando il massimo. Il famoso “si però…” che mi porta ad essere molto concreto. Il fatto di non sentirmi completamente soddisfatto di me stesso però è anche un pregio, mi consente di non guidare con il pilota automatico e di non vivere di rendita come purtroppo spesso accade a chi fa il mio mestiere. Ho avuto la fortuna di essere libero dal punto di vista professionale».
La libertà raggiunta nel corso del tempo è stata una conquista faticosa?
«In realtà ho sempre avuto datori di lavoro che non mi hanno mai posto limiti e questo mi rende consapevole di essere un privilegiato. Sono il primo giudice di me stesso non mi interessano ne i complimenti ne gli insulti perché sono sempre o troppo aggressivi o troppo gentili. Cerco di essere me stesso e di godere delle piccole soddisfazioni. Questa mattina per esempio mi sono sentito particolarmente soddisfatto al termine del mio programma…».
Cosa ti rende orgoglioso a livello professionale?
«Sono riuscito a mettere in fila una serie di elementi che avevano senso all’interno della narrazione e ogni cosa che ho detto, fatto e suonato aveva una giustificazione artistica. Non c’era niente di superficiale. La radio per me è cosi, l’affrontare un percorso netto di una gara ad ostacoli. Questo è riuscito a realizzarsi, sono stato molto concentrato per le due ore del programma e perché probabilmente ero talmente stanco da aver perso i freni inibitori».
La programmazione radio si costruisce a partire della musica. A Radio Deejay negli anni avete compiuto delle scelte che in Italia hanno definito la carriera di artisti come Tracy Spencer, Duran Duran e Sandy Marton solo per citarne alcuni. Oggi l’audience è diviso con le playlist delle piattaforme streaming come Spotify e anche le tendenze musicali sono differenti . Come vivi questo cambiamaneto?
«Questa per noi è una vera e propria sfida. In realtà la musica pubblicata oggi è in maggioranza pensata per un pubblico di adolescenti o addirittura pre adolescenti mentre il pubblico di una radio mediamente è collocato nella fascia dai trenta ai cinquant’anni. Con Radio Deejay si cerca di recuperare le nostre radici che sono quelle del pubblico che ci ascolta: se prima programmavamo esclusivamente musica nuova adesso invece siamo più adulti e scegliamo di inserire qualche brano del passato senza cadere nell’errore banale della nostalgia».
Come si scongiura l’effetto revival?
«Il segreto che ci distingue e che ci impegnamo a contestualizzare i nuovi brani, cerchiamo di spiegarli anche a generazioni che solitamente non dialogano tra di loro. Ecco perché Radio Deejay è una stazione adatta a tutti.
A proposito di tempi passati, negli annali della storia di Radio Deejay c’è anche tuo fratello Albertino, uno dei primi a promuovere le prime influenze eurodance in Italia insieme a Fargetta, Molella e Prezioso. Quanto ha inciso a livello umano e professionale il vostro rapporto nella costruzione del successo della radio?
«Il rapporto con Albertino è stato fondamentale nei miei primi dieci anni di carriera. Quando ho iniziato a fare radio lui aveva solo tredici anni ma da sempre è stato l’unico giudice che contava veramente per me. Non mi interessava del giudizio degli altri ma tenevo molto ad ascoltare il suo parere; la radio l’abbiamo scoperta insieme ci siamo innamorati di questo mondo in maniera complementare. Abbiamo sviluppato una curiosità morbosa verso questo mezzo e ognuno di noi che conosceva ed imparava qualcosa la metteva a frutto per l’altro».
Quale episodio ricordi con maggiore affetto?
«I primi anni conducevo un programma nella fascia serale che era quella per “i più navigati”. Alberto era piccolo doveva andare a scuola la mattina però quando tornavo a casa sempre i suoi post it incollati con i voti, i giudizi sulla mia conduzione e sulle canzoni. Siamo due ragazzi che provengono da una famiglia modesta. Ci siamo fatti forza a vicenda. La radio era una passione che non riusciva a farci sbarcare il lunario e guadagnavamo pochissimo. Una sera abbiamo rubato due bicilette per tornare a casa dopo un programma perché eravamo rimasti letteralmente a piedi…».
Oggi Albertino è direttore artistico di Radio M20…vi scambiate ancora consigli?
«Adesso siamo diventati grandi, io da fratello maggiore sono sempre un po’ rompiscatole, e continuiamo a scambiarci consigli. Adesso lui è alla direzione artistica di M2O e sono orgoglioso del suo operato, cerco di non invadere troppo le sue idee e di essere discreto».
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Linus quali sono le tue speranze e le tue paure?
«Penso che il Domani non sia il futuro più lontano ma l’evoluzione del oggi. Ho sempre vissuto la mia vita con questo atteggiamento. Guardare troppo lontano è il modo migliore per rimanere delusi, quindi penso semplicemente che ciò che sto facendo oggi sia ciò che mi aiuterà costruire un futuro migliore».