“Raccontare la realtà attraverso un romanzo, invece che in un TG, è liberatorio. La narrativa mi ha permesso di esplorare la verità in modo più profondo, di dare spazio alle emozioni e alle storie che spesso rimangono nascoste nel giornalismo quotidiano. Adesso sì che mi sento davvero libera.”

Con queste parole piene di entusiasmo ci accoglie Carmen Lasorella, giornalista e scrittrice, una delle figure più iconiche del panorama mediatico italiano. Nata a Matera il 28 febbraio 1955, Lasorella si laurea in Giurisprudenza presso l’Università La Sapienza di Roma prima di intraprendere la sua lunga e variegata carriera giornalistica. La sua è una voce che ha saputo farsi strada negli anni ’70, in un’epoca in cui il giornalismo era dominato da uomini, riuscendo a raccontare storie difficili con coraggio e dedizione.Nel corso della sua carriera, Carmen è stata inviata di guerra in diverse zone del mondo, e i suoi reportage hanno documentato con precisione e umanità alcune delle situazioni più delicate della storia recente. È divenuta celebre anche come conduttrice del TG2, dove ha lasciato un’impronta indelebile per il suo approccio incisivo e appassionato alla notizia. Negli anni, ha ricoperto il ruolo di direttrice di RaiSat, confermando la sua capacità di leadership in ambito mediatico.Un episodio drammatico della sua carriera è stato l’incidente avvenuto in Somalia nel 1994, durante una missione giornalistica. Lasorella rimase gravemente ferita in un attentato, un evento che ha segnato profondamente la sua vita e il suo modo di fare giornalismo, rafforzando la sua determinazione a raccontare la verità senza compromessi.Oggi, dopo anni di cronaca e reportage, Carmen Lasorella ha deciso di intraprendere una nuova sfida: la narrativa. Il suo romanzo d’esordio, “Vera e gli schiavi del Terzo Millennio”, rappresenta un‘evoluzione naturale del suo percorso professionale, che la vede ora alle prese con la scrittura narrativa. Il romanzo però non è solo un’opera letteraria, ma una profonda riflessione sui drammi del nostro tempo, dalla migrazione alla disumanizzazione dell’essere umano nella società contemporanea.La trama è avvincente e coinvolge tutti i sensi del lettore: al centro della narrazione c’è una donna, Vera, il suo mondo e il calvario dei migranti, vulnerabili e invisibili nella loro umanità. In un susseguirsi di voci e generazioni, la storia esplora complicità e narrazioni distorte, in una ricerca della verità che culmina in un epilogo travolgente, più che un epilogo, un nuovo inizio nel segno dell’amore.In questa intervista per il Salotto di Domanipress, Carmen Lasorella ci racconta il suo percorso professionale, le motivazioni che l’hanno spinta a scrivere il suo romanzo, e le esperienze che hanno influenzato la sua scrittura.

Carmen, sei una giornalista affermata con una lunga carriera alle spalle. Cosa ti ha spinto a passare dalla cronaca giornalistica alla narrativa?

«Il passaggio alla narrativa è stato un modo per esplorare la realtà da una prospettiva diversa. Nel giornalismo, siamo vincolati dai fatti, dobbiamo essere precisi, sintetici, oggettivi. La narrativa, invece, offre una libertà espressiva che permette di indagare le sfumature della verità, di dare voce alle emozioni e di raccontare storie che spesso rimangono nascoste nei confini della cronaca. Ho sentito il bisogno di raccontare non solo ciò che accade, ma anche come le persone vivono e sentono questi eventi. “Vera e gli schiavi del Terzo Millennio” è nato proprio da questa esigenza: raccontare l’umanità che si cela dietro ai numeri e alle statistiche».
Si dice che un bravo scrittore deve essere prima di tutto un ottimo lettore…Confermi o smentisci questa teoria?
Sono stata sempre una lettrice vorace e avevo quasi timore di mettermi a scrivere. Ma una volta che ho iniziato, ho scoperto di poterlo fare e sono soddisfatta del risultato. Sto già lavorando al mio secondo romanzo».
“Vera e gli schiavi del Terzo Millennio” non è solo un romanzo sulle migrazioni, ma è anche una riflessione sul nostro tempo. Come sei riuscita a coniugare la narrativa con la denuncia sociale?
«Ho sempre creduto che la narrativa abbia una funzione sociale importante. Un romanzo non deve solo intrattenere, ma deve anche far riflettere, scuotere le coscienze. Ho cercato di raccontare la complessità del nostro tempo, di mostrare come le migrazioni siano solo la punta dell’iceberg di problematiche molto più profonde. Ho voluto dare voce a chi non ne ha, raccontare storie di sofferenza e di ingiustizia, ma anche di speranza e di resilienza. La narrativa mi ha permesso di esplorare queste tematiche con una profondità che il giornalismo, per sua natura, non consente».

Eppure i sentimenti sono fondamentali anche nella ricostruzione del racconto della realtà…

«Ho scelto di affidarmi alla forma del romanzo proprio per poter raccontare storie e sentimenti senza essere legata rigidamente ai fatti, ma mantenendo un approccio onesto verso temi cruciali, come quello dei diritti umani, che in questo caso si riferiscono soprattutto ai migranti, l’umanità più vulnerabile. Questi sono spesso abbandonati al loro destino, usati dai governi per mascherare altre problematiche. Ho accennato poco fa alla questione della difesa dei diritti, spesso ignorati o mal rappresentati da chi dovrebbe tutelarli».

Il tema dei migranti è spesso presente sui giornali, come ritieni la sua narrazione?

«La situazione delle migrazioni è una pagina nera della nostra storia, con abusi inaccettabili che ricadono sulle spalle di persone costrette a lasciare il proprio paese, spesso non per scelta ma per necessità. La maggior parte delle migrazioni avviene all’interno degli stessi continenti, come l’Africa e l’Asia, con solo una piccola percentuale che si dirige verso l’Europa o l’America Latina, in cerca di una speranza. Eppure, ogni volta questa realtà viene mistificata».

Come mai tra i tanti temi che hai trattato hai scelto di approfondire questo aspetto?

«La scelta di scrivere questo romanzo è nata anche dalla mia esperienza diretta, avendo diretto un master universitario sulle immigrazioni, che mi ha permesso di conoscere da vicino le radici culturali e i mondi di queste persone. Ho potuto quindi affrontare questo tema senza cadere nella retorica o nei condizionamenti, con la libertà che solo la narrativa può offrire. Dare voce a chi non ce l’ha è un aspetto fondamentale della narrativa, una libertà che oggi è sempre più compressa».

Mi colpisce molto la parola “libertà”, che si collega anche al nome della protagonista del romanzo, Vera. Questo personaggio rappresenta la necessità di ritrovare la verità su tematiche che la cronaca giornalistica spesso tratta in modo superficiale o distorto. Quanto è stato liberatorio per te non scrivere un articolo o un reportage, ma optare per la forma del romanzo?

«Un romanzo, secondo me, arriva al cuore delle persone perché tocca i sentimenti. Nel giornalismo, i sentimenti devono rimanere nascosti, si devono raccontare i fatti nel modo più completo e approfondito possibile, fornendo chiavi di lettura per comprendere cosa sta accadendo. Ma in un romanzo, specialmente quando si affrontano situazioni di prevaricazione e violazione sistematica dei diritti, diventa fondamentale smontare le mistificazioni che spesso circondano queste tematiche. I media, in molti paesi, sono al servizio di un progetto che spesso semplifica e banalizza l’immigrazione. Per esempio, il questore di Agrigento mi ha raccontato di aver spostato tutti i migranti dai centri di accoglienza di Lampedusa, ma questa notizia non è stata riportata da nessuno. Quando mi ha detto che i media non l’hanno considerata una notizia, ho capito quanto sia grave la situazione».

La situazione fuori dai confini nazionali invece com’è?

«Abbiamo condotto anche un’indagine europea durante il master, e abbiamo riscontrato le stesse logiche anche negli Stati Uniti. Purtroppo, sulle migrazioni c’è una sorta di censura, forse perché è un fenomeno complesso che richiede un approfondimento che spesso manca nei media tradizionali. I numeri, se presi da soli, non raccontano l’intera storia. L’anno scorso, ad esempio, c’è stata una flessione significativa nel numero di migranti che arrivano in Italia, ma non se n’è parlato abbastanza. I dati globali parlano di 100 milioni di migranti in un mondo di 7 miliardi di persone, quindi forse dovremmo rivedere la nostra percezione di questo fenomeno».

Non hai affrontato l’argomento con un editoriale ma con un romanzo…

«Scrivere un romanzo mi ha permesso di raccontare queste realtà in un modo che scuote le coscienze, e di esercitare la mia libertà professionale in un contesto in cui la verità e la giustizia sono spesso compresse e mistificate. Ho avuto il privilegio di lavorare bene in passato, ma quando le condizioni sono cambiate, ho deciso di lasciare. Abbiamo il diritto di dire sì, ma anche di dire no».

A proposito del tuo percorso professionale, a un certo punto della tua carriera, ti sei trovata ad affrontare un evento drammatico: un agguato in Somalia durante una missione come inviata di guerra, uno dei momenti più difficili in cui hai perso un collega. Come ha influenzato la tua missione giornalistica?

«Quando si verificano eventi gravi, come l’agguato in Somalia, rischi di rimanere prigioniero di quell’esperienza. Ma io ho scelto di non lasciarmi definire da quel momento. Dopo tutto quello che è successo, ho fatto una sorta di pulizia interiore, eliminando ciò che non era importante e concentrandomi sulle priorità».

Come hai avuto modo di maturare?

«Ho capito che la vita è preziosa e bisogna viverla con consapevolezza, cercando di fare la differenza dove possibile. Questo evento mi ha insegnato a guardare avanti, a non restare intrappolata nel passato».

Nonostante il tuo allontanamento dagli schermi, nell’immaginario collettivo resti una figura importante, al pari di altre grandi giornaliste della RAI. Ti sei mai chiesta perché il pubblico ti ha dimostrato tanto affetto, nonostante i giornalisti spesso siano visti come figure neutrali?

«Credo che il mio rispetto per il mestiere e il mio impegno nel raccontare la verità abbiano contribuito a questo affetto. Continuo a dedicarmi a questo lavoro con passione, anche se non sono più sotto i riflettori».

Oggi sei meno presente in tv, ti piacerebbe ritornare sul piccolo schermo?

«La mancanza del video non mi pesa, anzi, mi permette di concentrarmi su altre forme di espressione e riflessione. Penso che il pubblico apprezzi la mia attenzione ai dettagli, il mio rispetto per la verità e la mia capacità di trasmettere umanità anche quando racconto fatti difficili».

Il romanzo affronta anche il tema della verità e delle narrazioni distorte, un argomento che sembra particolarmente attuale oggi. Cosa pensi della situazione attuale del giornalismo e della diffusione di fake news?
«Il giornalismo oggi si trova di fronte a sfide immense. La diffusione di fake news e la manipolazione delle informazioni stanno minando la fiducia del pubblico nei confronti dei media. È un fenomeno pericoloso, perché senza un’informazione corretta e verificata, la democrazia stessa è a rischio».
Quali sono le priorità del giornalismo moderno?
«Credo che sia più importante che mai per i giornalisti rimanere fedeli ai principi di verità e trasparenza. Dobbiamo continuare a lottare contro le distorsioni della realtà e a difendere il diritto delle persone a essere informate in modo corretto».
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Carmen Lasorella quali sono le tue speranze e le tue paure?

«Domani è sempre una speranza. Anche quando il presente è difficile, domani rappresenta una nuova possibilità, un’opportunità per superare il momento negativo e lasciare dietro di noi ciò che appartiene a ieri».

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Direttore editoriale del portale Domanipress.it Laureato in lettere, specializzato in filologia moderna con esperienza nel settore del giornalismo radiotelevisivo e web si occupa di eventi culturali e marketing. Iscritto all’albo dei giornalisti dal 2010 lavora nel campo della comunicazione e cura svariate produzioni reportistiche nazionali.