Nella tragedia greca o romana, uno dei punti fondamentali teorizzati da Aristotele è l’agnanorisis che si svolge attraverso il riconoscimento della reale identità di un personaggio definendo un passaggio da uno stato di incoscienza ad una verità passando da un’epifania liberatoria. L’ artista israeliano Asaf Avidan, uno dei talenti internazionali tra i più apprezzati con numerosi dischi d’oro e di platino in oltre 15 Paesi, a quella rivelazione ci è arrivato a seguito di una pausa dai riflettori avvenuta in una magnifica tenuta nel centro Italia, diventata poi il suo studio di registrazione circondato da campi e ulivi. Queste sono le premesse di “Anagnorisis” il nuovo album edito da Artist First, una ricerca di se stessi tra mille sfumature che appartengono ad un’unica figura in cui suoni mistici ed esotici si fondono con radici profonde che scavano verso l’interno con strutture curate e precise, arricchite da correnti musicali che spaziano dall’hip-hop anni ’90 al pop più attuale, fino alla musica gospel. Il disco, registrato in parte nel piccolo studio a Tel Aviv, dove Asaf è stato affiancato dal fidato collaboratore Tamir Muskat, già al lavoro su “Different Pulses” e “Gold Shadow”, ed in parte, causa lockdown, nella propria casa in Italia si sviluppa come una vera rivelazione in cui la complessità, la molteplicità e la confusione sono parte dell’esistenza umana. Ma non è tutto l’interprete di “One day” è recentemente partito per un lungo tour europeo che arriverà anche nel nostro paese toccando città come Bologna (2 Marzo) al Teatro Duse, Roma (3 Marzo) Auditorium Parco della Musica e Taranto al Teatro Fusco (4 Marzo). Noi di Domanipress abbiamo avuto il piacere di ospitare Asaf Avidan nel nostro Salotto digitale per parlare con lui di musica, arte e filosofia alla ricerca di radici lontane e connessioni sensoriali in un’Intervista Esclusiva intima e profonda come una seduta di psicanalisi.
Il tuo ultimo album “Anagnorisis” riprende il titolo da un concetto mutuato dal pensiero filosofico di Aristotele; come si è sviluppato il tuo approccio con la filosofia greca?
«Prima di tutto, sono sempre stato intrigato dalla filosofia greca dalla mitologia e dalla sua storia che in qualche modo è spesso sul fondo dei miei pensieri reconditi. In questo periodo qualcosa in me è cambiato; ho attraversato una specie di crisi di mezza età, ho vissuto da solo in una casa vicino a Pesaro in Italia. Stavo trascorrendo semplicemente del tempo in relax prima che iniziasse la pandemia, mi sono preso un anno sabatico lontano dai tour ed è stata la prima volta che l’ho sperimentato. Improvvisamente sono stato preso da un senso di smarrimento, ho avuto la sensazione di non sapere chi fossi, una sensazione straniante. Ogni volta che cercavo di afferrare la realtà tutto si trasformava in una nebulosa, in un fumo impalpabile. Mi sentivo semplicemente senza forma. Come persona, era davvero interessante questa fase da esplorare, ma come artista, era insopportabile. Perché come artista, hai bisogno di capire e trasmettere le tue emozioni, i tuoi pensieri, non puoi farli fuggire tutto il tempo, hai bisogno di concentrarti su di essi per poterne scrivere».
Dalle crisi interiori spesso si nasconde la possibilità di conoscersi…
«Stavo passando un periodo orribile in studio, i giorni si susseguivano cercando di scrivere e non riuscendo a rispondere alla domanda: “Chi sono io? La ripetevo continuamente. Non riuscivo a dormire la notte e un giorno ho preso uno dei miei libri di filosofia e sono inciampato su Aristotele. Non ricordo se il testo fosse “La politica” l’ opera e dedicata all’amministrazione della polis ma ciò che mi ha colpito e stato il termine Anagnorisis che corrisponde al momento in cui una commedia greca dove un personaggio comprende una nuova verità che lui o lei non sapeva prima su se stesso. Allora da quella epifania tutta la comprensione di chi sono è cambiata. È come se fosse stato un momento eureka in cui si passa dall’oscurità del non sapere alla luce del sapere chi si è».
Quando hai capito di essere arrivato ad un punto di svolta della tua ricerca?
«Il mio momento eureka è stato capire che l’agnagnorisis funziona meravigliosamente per Aristotele, perché si sta parlando di tragedia o commedia, si sta parlando di finzione. Quando si tratta della vita reale invece non c’è un momento di comprensione del sé, perché è per definizione indefinito mutevole. Bisogna semplicemente imparare ad accettarlo».
Usare un termine mutuato dal greco è un’operazione insolita per una popstar…
«Uso questo termine quasi ironicamente, nel senso che la mia realizzazione è stata che non ci può essere una realizzazione del ‘sé’. Quindi questo mi ha portato a poter parlare di diversi personaggi dentro di me, incorporando tutte le mie anime».
La tua indagine artistica parte dall’Italia, paese che hai scelto come base per il tuo studio di registrazione. Come mai hai scelto proprio Pesaro?
«Niente di quello che ho fatto nella mia vita è stato pianificato. A guidarmi sono sempre coincidenze o errori, qualcuno lo chiamerebbe destino. Alcuni anni fa, intorno al 2015, dopo molti sacrifici la mia carriera ha iniziato a rodare. Provengo da una famiglia che non ha mai avuto una forte stabilità economica. Per tutta la mia vita ho sempre lottato, soprattutto per il lavoro che facevo. Sono nato artista e ho seguito l’istinto».
L’istinto è stato premiato dal successo arrivato all’improvviso.
«Verso il 2015, le cose sono cambiate. Ci sono stati tre anni consecutivi intensi in cui il successo è stato come salire su una giostra. Ho pubblicato Il mio primo album ho iniziato a suonare in tour e improvvisamente c’erano soldi in banca, sul mio conto corrente e per la prima volta nella mia vita mi sono detto: “Cosa ci faccio con questi?” e qualcuno ha detto: “Dovresti comprare una casa!” Così ho detto: “Ok”».
La scelta della casa è diventata il tuo passaporto per l’italia…
«Stavo cercando di comprare un appartamento a Tel Aviv perché è lì che vivevo all’epoca ma qualcosa mi ha fatto aspettare, non so bene cosa, ma ho aspettato, e poi ho incontrato due amici in una sfilata di moda a Milano Massimo Berloni e Manuela Mariotti che presentavano una società di moda chiamata “Dondup”. Quando ho potuto conoscerli mi sono innamorato di loro. Sono più adulti di me, possono essere i miei genitori, ma mi sono subito trovato in piena sintonia, attraverso loro mi sono innamorato dell’Italia. Ho avuto l’occasione di conoscere aspetti che non potevo scoprire come israeliano. La cultura italiana mi ha talmente attratto che ho deciso di comprare una proprietà in umbria dove ho allestito uno studio di registrazione. Ogni volta che ci torno mi riconnetto con me stesso».
Tra pochi giorni ritorni in tour nelle citta europee ed italiane più rappresentative da Bologna, Taranto. Come ti stai preparando a questo evento?
«Voglio tornare a percepire l’energia del pubblico a rivivere le emozioni della condivisione. Per me ha senso svolgere il mio lavoro come artista e viaggiare in giro per il mondo. Penso che sia importante non solo per me ma anche per tutti i miei collaboratori. Personalmente è ovviamente importante perché sono un artista, e questo è ciò che sono. E non è solo la mia professione, il mio reddito, ma è anche la definizione di me stesso».
Perché l’arte, la musica e la cultura sono utili soprattutto in questo momento storico?
«Oggi c’è bisogno di questo. L’arte è lo strumento migliore per opporsi alla paura. Io non credo che esista un male assoluto e intrinseco. Penso che tutto derivi sempre dalla paura. L’arte può lottare contro quella paura, combattendola con la bellezza e la dignità e questo ce la fa vivere meglio perché la vediamo, ne parliamo e ci lavoriamo come se fosse una seduta di psicanalisi. Quindi, se ho bisogno di incontrare il pubblico, se ho bisogno di raggiungere diversi punti in Italia, lo faccio perché penso che sia un’impresa importante. Se dipendesse da me farei ancora più concerti ma purtroppo non li organizzo direttamente. Sono felice di fare musica ovunque ci sia anche solo una persona che voglia venire ad ascoltarla».
Tu sei originario di Tel Aviv, si parla spesso di questione palestinese, la terra sacra per ebrei, musulmani e cristiani è spesso campo di scontro tra culture diverse…tu come vivi questa condizione, nella tua musica si parla spesso di inclusione e di amore universale.
«Scrivo i miei testi in maniera diretta descrivendo le cose così come sono; so bene che questo suonerà politicamente scorretto. Penso che il problema israeliano e palestinese, ucraino e russo, americano e cinese siano problemi reali di cui la gente è molto colpita ma che non mi interessano nello specifico. Preferisco indagare sulla loro natura umana e chiedermi: perché ci sono questi problemi? Perché questo tipo di attriti e interazioni avvengono sempre tra gli esseri umani?. Spesso mi chiedo: “Ok, perché si odiano tra loro gli ucraini e i russi o i mussulmani e i cattolici? La risposta è che manca la comprensione dell’altro e questo deve essere analizzato. Quello che mi interessa è lo strato inferiore, il cuore di chi siamo come esseri umani e cosa ci spinge a compiere determinate azioni, non mi riferisco solo alla guerra e i conflitti, ma anche alle dinamiche dell’arte e l’amore. Ogni fondamentalismo che creiamo è generato dalla paura che è la vera causa comune. La condizione di esseri umani che dovrebbe accumunarci è la comprensione che siamo fragili e che smetteremo di esistere. È questo è così travolgente, perché non solo noi smetteremo di esistere, ma anche i nostri figli, le città, questo sole che ci riscalda e l’universo intero».
Tutto passa da una presa di coscienza profonda; come ha influito su di te crescere tra la Palestina e la Giamaica ?
«Sappiamo tutti che c’è bisogno di guardarsi dentro, abbiamo la capacità di capirlo, ma non di accettarlo. Quindi, penso che sia questo che “Come fanno gli umani a far fronte a questa paura?” Cosa facciamo per opporci ad essa? Mi hai chiesto se Israele mi ha dato qualcosa: penso che crescere a Gerusalemme e crescere a Kingston, Giamaica, mi ha dato un’essenza di multiculturalismo, di pluralismo, di colore, di razza, di etnia, di lingua, di religione che oggi mi ha reso un uomo con un pensiero libero».
Quali sono i tuoi confini?
«Sono cresciuto con la consapevolezza che non ci sono veri confini, è tutto falso. Quando parli con le persone, sono persone senza etichette, un bambino cinese di cinque anni e una donna africana di otto; hanno fondamentalmente gli stessi sentimenti per il mondo. Vivono delle stesse paure e dagli stessi desideri. Questo mi interessa. È di questo che cerco di scrivere. Cerco di lavare via le superficiali differenze immaginarie che abbiamo, e parlare di paura, amore e speranza».
Nel tuo ultimo album “Anagnorisis” si parla di ricerca di se stessi. Secondo te l’identità di ognuno di noi è statica o mutevole?
Penso che la nostra identità con il tempo, cambia. È quasi come dire ok, “Sono seduto fermo in un punto statico, immagina che tu sia seduto vicino a una scrivania, e dici: “Oh, ho una scrivania”. Poi la guardi più da vicino e dici: “Oh, la scrivania è di legno”. Poi guardi con una lente d’ingrandimento, e vedi nelle sue venature una piccola topografia del mondo. Tutto cambia se lo guardi da prospettive differenti».
Cosa hai scoperto guardando il mondo dal tuo punto di vista?
«Se prendi un microscopio osservi le diverse cellule delle cose puoi capire come è composto un ogetto ed è questo l’approccio che ho scoperto nel ricercare la verità. E come se ci fossero due aspetti che esistono e che allo stesso tempo si influenzano a vicenda ed è una probabilità scientifica, sai questo accade anche con la fisica quantistica; è folle non credi. È così che mi sento, non è solo il tempo che mi ha cambiato. Il mio mutamento dipende dallo strumento con cui mi guardo dentro».
Nel tuo grande successo “One day” canti “My heart is dry”. Quando ti sei sentito in questa condizione…
«Più mi guardo dentro e più vedo diverse varietà di me stesso che traduco in canzoni. Quando ho scritto: “Niente più lacrime, il mio cuore è asciutto” l’ho fatto con sincerità. Se prendessi una lente d’ingrandimento diversa e guardassi un punto diverso di me stesso adesso, potrei benissimo dire, “Ho un sacco di lacrime, il mio cuore è bagnato, sai?”. Non credo che nessuna delle due ipotesi sarebbe una bugia e credo che nessuna sarebbe la verità. Penso che siano due visioni entrambe fondamentali. E’ solo ciò su cui scegliamo di mettere a fuoco la realtà ciò che conta ed è questo ciò che mi interessa dell’essere un artista. tutto ciò che sono, è una lente di focalizzazione, al mio subconscio per vedere cosa sta succedendo…se vuoi è come se fosse una nevrosi da curare».
Una nevrosi che poi sei riuscito a risolvere con l’arte…
«C’è un’inutilità, nello sforzo di essere onesti. Lo ripeto perché ci credo in questo concetto. C’è un’inutilità nello sforzo di essere onesti perché l’arte è fondamentalmente una bugia. Perché ci si concentra sempre e solo su una cosa, perché quella è la cornice, giusto? Se c’è una foto, la incornici, se c’è una canzone, hai una struttura in cui ritrovarti. Penso che non si possa mai tradurre la natura caotica del sé, dell’amore, della paura, del mondo dell’universo dell’esistenza in una struttura, perché è una grande bugia, ma non penso che tutto sia inutile. Ritengo che sia coraggioso provarci comunque. Non credo che noi uomini possiamo avere la capacità di capire l’universo, ma il fatto che stiamo creando telescopi per esaminare 13,8 miliardi di anni nel passato è incredibile e ci fa capire che possiamo scoprire nuovi orizzonti».
Sul palco le tue interpretazioni sono molto emozionali ed anche il tuo outfit spesso sono essenziali e ti mettono letteralmente a nudo…Come nasce queste esigenza?
«C’è qualcosa di interessante che sta accadendo ora su questo livello e che vedo quasi dall’esterno. Ho iniziato a vestirmi elegante sul palco, con giacche e camice colorate. Mi chiedo: perché come dici tu, prima mi esibivo, con i jeans e una canottiera adesso invece ho cambiato questo approccio? Ho risposto che non l’ho fatto per me stesso. Quando ho iniziato ad esibirmi ho pensato che avevo l’urgenza di mostrare chi sono come una persona che lavora con i jeans e una canottiera e questa è semplicemente la mia realtà. Voglio mostrare al pubblico una vera versione di chi sono. Pensavo fosse questo il significato, ma ora sto sperimentando qualcosa di diverso ».
Oltre al personaggio sul palco porti te stesso senza filtri, è una maniera onesta di confrontarsi con il pubblico
«Vedi artisti come Tom Waits, che ha un personaggio, anche visivo che costruito e mantenuto per 30 anni. Sono sicuro che lui non va in giro per casa con il cappello e la sigaretta e dice: “Vado a prendere un caffè”. Sono sicuro che è diverso quando è lontano dal palco. Ma questo non rende il suo personaggio meno onesto. In un certo senso, lo aiuta a dire cose più oneste, la teatralità di questo aiuta effettivamente a creare una versione più vera di se stesso che non esiste quando è sul salotto o mangia un hamburger. Così, sto sperimentando quale personaggio posso costruire su me stesso per esprimere una versione accentuata della mia verità in questo momento, o almeno una delle mie verità in questo momento».
Durante il tuo ultimo tour giochi con i colori..
«Questo è interessante per me. Per il tour, ho circa cinque abiti diversi, ognuno dei quali è di un colore completamente opposto all’altro. Ogni giorno, indosso il blu, il rosso, il giallo ed il rosa. Il punto è che siamo tutti uno spettro completo e ogni colore visibile è solo un aspetto di te stesso, ci hai mai pensato?».
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Asaf Avidan quali sono le sue speranze e le sue paure?
«Prima di tutto, grazie per le gentili parole che mi hai dedicato in questa intervista. La mia più grande paura che ho del Domani è che gli umani continuino ad essere controllati come marionette dalle loro paure. Direi che la mia speranza è che magari in futuro potremo usare gli strumenti che abbiamo: l’empatia, l’ immaginazione e l’ amore. So che suona smielato, ma ci credo davvero. dobbiamo tagliare quei fili che ci legano. Questo è davvero quello che spero. Non sono così ingenuo da pensare che possa funzionare, ma sono ottimista e credo che dovremmo continuare a provarci per raggiungere l’obiettivo».
Intervista Esclusiva a cura di Simone Intermite