Chi fermerà la musica? Cantavano i Pooh. A quanto pare nemmeno una pandemia: al compimento del primo (e preghiamo ultimo) anno alla mercé del Covid, il Festival di Sanremo riconquista il palco di un Ariston privato del pubblico ma non del sacro fuoco dell’arte. Arte sia musicale che sartoriale, s’intende: d’altro canto si sa che l’unica cosa scrutinata tanto quanto le canzoni, a Sanremo sono proprio i look dei loro interpreti.
L’anno silenzioso e segnato di privazioni mondane dal quale tutti siamo reduci ha inevitabilmente portato anche i normalmente meno entusiasti a guardare con più attenzione al festival della canzone italiana, che all’appello di un pubblico in assenza da glamour ha risposto con una galleria di look non sempre eccelsi, ma che in alcuni casi hanno finalmente mostrato che osare con stile si può, anche a Sanremo.
Finalmente. Diciamo che tra i primi della classe in termini di look si possono individuare “due categorie in gara” (per riciclare il gergo sanremese): le prevedibilmente bellissime e gli avanguardisti. La prima categoria è dominata dal binomio “donna bellissima-abito d’autore”.
In primis Malika Ayane, che vota le proprie mise all’altare di Armani. Particolarmente memorabile il look della seconda serata: una tuta in velluto nero dai volumi morbidi e scolli vertiginosi davanti e dietro, coperti da una cappa in trama di cristalli dal retrogusto anni ’20. Insieme a lei nel segno di Re Giorgio fa il paio Matilde Gioli, già splendida di suo, che in veste di co-conduttrice dell’ultima serata sanremese sfoggia un abito anch’esso rigorosamente nero e scintillante. Entrambe molto azzeccate e decisamente prevedibili, appunto. Per ulteriori esempi, vedasi Elodie in Versace stile Jessica Rabbit o Matilde de Angelis in Prada. Tutto molto giusto, ma sempre “quella roba lì”. Sulla stessa falsariga di elegantissimo comfort si muove Noemi, che però ha in più il merito di proporre una chicca d’archivio: un Dolce&Gabbana AI 2007/2008 fatto a mano, in finissimo tulle grigio completamente ricoperto di cristalli Swarovski: una raffinatissima dedica alla storicità, all’italianità, all’eccellenza che ci inorgoglisce davvero.
Dunque è tutto qui? È questo l’apice della moda a Sanremo? Anche se lo fosse non sarebbe certo cosa da poco, infondo si parla di abiti che più che da indossare sarebbero da esporre in un museo. Eppure c’è stato di più quest’anno. Forse incentivati dall’esperimento storico-estetico di Achille Lauro dell’anno scorso (che aveva omaggiato vari uomo e donne della storia vestendone i panni firmati Gucci), molti più interpreti sembrano aver voluto cogliere la 71esima edizione del festival per osare non solo con la voce, ma anche con gli abiti.
Soprattutto e per fortuna tra gli uomini, che solitamente sono relegati al regno delle giacche da smoking e dei chiodi di pelle con i lustrini (che per la maggior parte hanno comunque spopolato, vedasi Amadeus e la sequela di discutibili giacchette by Gai Mattiolo). Primo fra tutti è stato naturalmente lui, Achille Lauro, che anche quest’anno ha creato (non selezionato) i propri outfit in base ad un progetto estetico e performativo articolato in cinque “quadri”. Ogni quadro è stato un tributo ad un genere musicale: glam rock, rock’n’roll (per il quale si è travestito da Mina, secondo il cantante vera anima rock), pop e punk. La firma sui look di scena degni di uno spettacolo teatrale è nuovamente quella di Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci. Egli si riconferma per l’ennesima volta non mero stilista di moda ma costumista, scenografo, designer in grado di mescolare ciò che è vintage con un’avanguardia pura e dissacrante. Per la performance omaggio al pop Achille Lauro è una statua dapprima immobile e poi vivente, un moderno Apollo, che duetta con Emma Marrone, anch’essa fasciata in una tunica da divinità greca in argento, creata appositamente per la serata sempre da Gucci. I costumi di scena sono complementi e protagonisti della potente esibizione che racconta di Penelope (la canzone che cantano è proprio ”Penelope” di Lauro), donna senza voce, immobile ma anche stoica nell’attesa dell’uomo che amava ma che non la meritava.
Questo trionfo di un’estetica androgina e rock’n’roll è parimenti ripreso e declinato, anche se forse con una dietrologia meno raffinata, dagli altri grandi protagonisti, i vincitori di questo Festival: i Maneskin. Tra maniche a sbuffo, pizzi, trasparenze e spalline imbottite sulla falsariga di Mick Jagger e compagni, i Maneskin si affidano all’intramontabile (e troppo poco celebrato) Etro per trovare uno stile che calza come un guanto a tutti i membri del gruppo, tre ragazzi e una ragazza. Per la serata finale, la maison confeziona per la band una serie di tute color carne trasparenti, ricamate nei punti giusti con dei motivi di foglie di fico e girali di vite, in una sorta di mise da Giardino dell’Eden che sottende una nudità primordiale, senza sovrastrutture o disparità tra sessi. Infine, volendo fare la rassegna completa del coraggio sartoriale a Sanremo 2021, non si può non nominare Mahmood. Cosa dire, se non “bravo”? Il giovane artista, che nel 2019 aveva vinto mettendosi a nudo con il brano “Soldi”, propone un mash up dei propri successi recenti, indossando uno strepitoso Riccardo Tisci (direttore creativo di Burberry). Nella parte superiore l’abito, in mohair nero rigido, è fortemente strutturato e ricorda quasi un’armatura, salvo poi scendere sotto la vita dove prosegue come una gonna plissettata molto discreta, che si ferma ai polpacci. Mahmood è un guerriero in abito plissè, un uomo contemporaneo che non ha bisogno di abiti stereotipati per affermare la propria mascolinità, ma che anzi non teme di abbracciare ogni lato della propria personalità d’artista. Per di più l’abito gli sta una favola. La morale di Sanremo 2021 pare dunque una, ed è la stessa lezione nel cui segno la moda contemporanea deve adoperarsi: il futuro non è una bellissima e statuaria Venere in abito da sera, ma personaggi diversi in costumi di scena che raccontano la fluidità di genere e di stile dell’estetica contemporanea.
Fiorenza Sparatore