Taika Waititi è un regista difficile da inquadrare. La sua filmografia è contraddittoria e polarizzante, e l’ultimo standalone sul figlio di Asgard, co-scritto e diretto dall’eccentrico cineasta neozelandese, non fa eccezione. Per la capacità di sfornare film schrödingeriani – ossia esistenti in una condizione di sovrapposizione tra stati incompatibili: boiata e capolavoro, a seconda del punto di vista – ricorda quasi Christopher Nolan (solo meno talentuoso, e più divertente). Nolan e Waititi sono accomunati anche dall’obiettivo di (provare a) conciliare arte e intrattenimento. Sono autori che si muovono nel solco di Hitchcock, Leone e Johnnie To – un solco insidioso, che come la trincea di Orizzonti di Gloria, fagocita molti e risparmia pochi. Questo quarto capitolo è di una semplicità narrativa sconcertante. L’antagonista Gorr è introdotto nella prima scena.
Lo interpreta Christian Bale, metamorfico come al solito, sebbene fin troppo sopra le righe – persino per un alieno zombesco, il cui pseudonimo è «Macellatore di Dei». Subito dopo, comincia “una classica avventura alla Thor” (come recita la tagline promozionale). In sintesi Gorr, durante le sue peregrinazioni deicide, s’imbatte in Thor, decidendo di ricorrere ad ogni mezzo pur di eliminarlo. Le premesse poste dai Russo in Endgame (un Thor inflaccidito, accodatosi ai guardiani della galassia) sono presto rigettate. Nel giro di una manciata di minuti, prima un esilarante training montage liquida sbrigativamente il flaccidume, poi un ridanciano momento guerresco segna la separazione dai guardiani. A livello tecnico, Waititi non è uno sprovveduto. Dalle luminescenti architetture celesti della Città degli Dei (un’ode alle potenzialità dell’odierna CGI), al bianco e nero quasi bergmaniano del pianeta di Gorr (splendidamente contrastante con la fotografia screziata che domina il resto), l’opera vanta diverse trovate, senza però raggiungere davvero l’eccellenza in nessun comparto produttivo.
La CGI è lodevole in alcuni punti, zoppicante in altri – vedasi Korg, l’alieno-narratore (doppiato dallo stesso Waititi), la cui pelle è fastidiosamente camaleontica, cambiando tonalità di scena in scena. Problematici anche gli abbinamente musicali, che pur ricordando il pop agée sdoganato da Gunn nei suoi Guardiani della Galassia, difettano di energia e inventiva, finendo per scadere nella monotonia. Tecnicismi a parte, il film vorrebbe essere una commedia venata di dramma, ma risulta decisamente sbilanciato, perché Waititi giustappone dramma e commedia con tale immediatezza da depotenziarle entrambe. Forse il più grande enigma che si cela dietro Waititi è proprio questo: come può un regista che ha dimostrato di saper coniugare impeccabilmente comicità e dramma (Boy, Hunt for the Wilderpeople, Jojo Rabbit), trattare la materia supereroistica in modo così infantile, senza provare nemmeno a includervi quei desiderata (intimità, approfondimento psicologico, equilibrio tonale) che pure ha dimostrato di saper gestire (quasi) alla perfezione? A parere di chi scrive, Waititi è convinto che i film supereroistici siano delle cretinate, e che quindi non valga la pena di sforzarcisi troppo. Chiudendo il cerchio, da questo punto di vista, Waititi è quasi l’anti-Nolan, e il suo Thor l’anti-Cavaliere Oscuro: bando alla serietà e alla (vera o presunta) profondità, evviva la leggerezza!