Dopo il grande successo riscosso da Arrow, con Gotham, la DC Comics, coadiuvata dalla Warner Bros. Television cercano di fare nuovamente centro, tentando di raccontare le origini di tutti i personaggi che popolano le fumose strade di Gotham City, zona di caccia, come si sa, dell’uomo pipistrello. È indubbio che la serie nasca dalle ceneri dei film di Christopher Nolan basati sul vigilante mascherato Batman, a partire proprio dall’urbanistica della città. Infatti, le scenografie di molti quartieri hanno poco a che vedere con il tratto fumettistico degli alti palazzoni e dei vicoli del comicbook di riferimento, conferendo un tono realistico alle atmosfere che ci vengono presentate. Un’estetica visiva consolidata anche da una fotografia dura e gelida, la quale, non solo fortifica la verità delle infrastrutture cittadine ma persino i volti dei protagonisti, evidenziandone le imperfezioni somatiche dei visi, come se fossero abbruttiti dalla delinquenza e dalla società corrotta che li circonda in ogni istante della loro vita.
Invece, sul versante umano, il serial è debitore del regista inglese ad esempio, della continua diatriba tra cosche mafiose italo-americane, la famiglia Falcone e la famiglia Maroni, per il controllo della metropoli, che, fra esecuzioni in segreto e spaghettate consumate a tarda notte nei propri club, generano un’ambientazione verosimile, sebbene tale crimine organizzato sia reso in modo un po’ troppo stereotipato in salsa hollywoodiana.
Eppure, non si può dire che non risenta anche delle eccentriche influenze dello stile burtoniano. In questi casi, allora, Gotham, ritorna ad essere una città di carta, con fitti banchi di fumo trasudanti dai suoi putridi tombini e statue di gargoyle che dall’alto dei grattaceli scrutano con sguardo attento ed orrorifico l’indigenza, la crudeltà e l’indifferenza che si sono oramai impadronite della fauna locale. Dell’impronta di Tim Burton è persino la schizofrenia e la fisicità dei vari proto-supercriminali presentatici di puntata in puntata, dallo storto e machiavellico giovane Pinguino, interpretato da un bravissimo e grottesco Robin Lord Taylor, ad un Harvey Dent (Due Facce) ambizioso, e, già con la fissa per il fato.
Gotham, come Nolan prima di lei, si assume il compito di scavare sino negli anfratti più profondi della psicologia dei personaggi, ma con un raggio più ampio, avendo dalla sua una serialità che gli permette di analizzare anche le figure secondarie che un’opera filmica non ha il tempo di sviscerare in tutte le loro sfaccettature.
In questo affresco della genesi delle storie del cavaliere oscuro, in cui Bruce Wayne è solo un ragazzino rimasto orfano e desideroso di vendetta, sorretto da un Alfred integerrimo ed affettuoso, sembra di essere sospesi in un luogo senza tempo, dove i cellulari fanno parte della quotidianità ma contemporaneamente il look disegnato per gli interpreti ricorda molto i noir vecchio stile alla maniera dell’Infernale Quinlan di Orson Wells.
Tra gli attori, c’è da menzionare Donald Logue, nei panni di Harvey Bullock, un detective non esattamente sempre in linea con il regolamento del dipartimento di polizia, che, certi di voi, si ricorderanno nella serie animata anni Novanta Batman the animated series,e, Camren Bicondova, ricoprente il ruolo di una adolescente Selina Kyle (Catwoman), incredibilmente somigliante a Michelle Pfeiffer; ma quest’ultimo aspetto sembra quasi fatto di proposito.
Per concludere, vorrei spezzare una lancia a favore del vero protagonista della serie, Benjamin McKenzie. Dismessi gli abiti da ragazzotto (anche se a me in The O.C. non dispiaceva affatto, anzi), nelle vesti di un James Gordon alle prime armi spicca per come abbia affrontato il ruolo, conferendo al personaggio una forte umanità, sulla falsa riga di quello impersonato da Gary Oldman, aggiungendola ad una prestanza fisica che già c’era e che si rivela essere appropriata per la parte. Io, Gotham, la promuovo in pieno, fatemi sapere la vostra
Gabriele Manca