Martedì 11 dicembre uscirà al cinema, per soli due giorni, il documentario di Marco Proserpio “L’uomo che rubò Banksy’”. Contrariamente a quanto si potrebbe evincere dal titolo, il film non è affatto un biopic su Banksy, né vuole essere un’indagine sulla sua misteriosa identità. Partendo da una celebre opera dell’artista, la pellicola presentata in anteprima al Tribeca Film Festival e a Torino, snocciola due delicatissimi temi: la speculazione della street-art e la possibilità di una sua futura storicizzazione.
Nel 2007 il writer di fama mondiale Banksy, si reca a Betlemme per dipingere sul muro della West Bank un soldato israeliano che chiede i documenti ad un asino. Il controverso graffito viene segato, asportato e venduto su Ebay per 100.000 dollari da un tassista palestinese noto come “Walid the beast”.
Da questo momento in poi il film segue gli spostamenti del muro lungo il suo viaggio intorno al mondo: passando per Copenaghen, New York, Londra, Los Angeles, si scopre un vero e proprio mercato nero dell’arte di strada, all’interno del quale vengono commercializzate pareti e murales rubati alle città.
Il documentario si basa su un’azione radicale: la rimozione di quattro tonnellate di muro, rivendute al migliore offerente. Se da un lato la vicenda riflette perfettamente la società attuale, dove tutto ha un prezzo, dall’altro lato viene da chiedersi cosa voglia dire eliminare un’opera d’arte in una zona di conflitto dove tutto può diventare una preziosissima arma.
Nella pellicola intervengono diverse personalità quali: collezionisti d’arte, restauratori, curatori, gente comune e avvocati specializzati in diritti d’autore. L’artista italiano Paolo Buggiani racconta di come andasse in giro nella New York degli anni ’80 a rimuovere i pezzi di Keith Haring dalle pareti della metropolitana, prima che qualcuno li considerasse arte. Grazie alla sua intuizione più di cinquanta capolavori sono stati salvati dall’underground newyorkese. A Bologna l’artista di strada “Blu” cancella le sue opere dalla città, coprendole con una spessa mano di vernice grigia, come segno di protesta contro la mostra “Banksy &Co”, colpevole di aver decontestualizzato le sue opere e quelle di altri street-artists, strappandole dalla loro naturale destinazione in favore della musealizzazione e monetizzazione.
Per un documentario dal sapore così punk nessun’altra voce poteva essere migliore di quella di mister Iggy Pop, che tra suoni tradizionali del medio oriente e musica elettronica, racconta lo scontro tra culture diverse e l’impressionante disperazione con cui l’establishment dell’arte arriva a speculare persino su tonnellate di cemento segate.
A distanza di diversi anni l’asta del muro con l’asino e il soldato non si è ancora conclusa e l’opera realizzata per mostrare all’occidente ciò che non vedeva, è attualmente sdraiata in polveroso magazzino di Londra. A chi appartiene davvero l’arte di strada, all’artista che la produce illegalmente o al pubblico al quale è destinata? Marco Proserpio non dà alcuna risposta in merito, ma quel che è certo è che la street-art non è semplice graffio sul muro, è un urlo potentissimo.
Valentina Corasanniti