È ormai stato praticamente appurato da tempo che in genere la chiacchiera delle donne, soprattutto quando si trovano a parlare fra di loro, sia decisamente molto più vivace rispetto a quella di qualsiasi maschio medio del creato e “Cinquanta sfumature di nero”, quanto il suo diretto predecessore “Cinquanta sfumature di grigio” di due anni fa, semplicemente è un’estensione di questa femminile peculiarità.
La saga erotica delle “Cinquanta sfumature” la possiamo considerare come una forma di aggregazione sociale, un salotto fatto di mondanità dove la maggior parte delle donne o delle ragazze, anche le meno smaliziate, senza il timore di poter essere giudicate dall’altro sesso, si sentono libere di esprimere apertamente le proprie opinioni, le proprie fantasie, i propri desideri confrontandoli con quelli delle amiche con le quali si sono date appuntamento al cinema della loro città laddove proiettano, in questo caso, “Cinquanta sfumature di nero”. L’evento delle cinquanta sfumature è, insomma, una zona franca in cui chi ne varca il confine, incoraggiata dalla pellicola, si spoglia finalmente di quella compostezza impostagli dalla comunità che la circonda per poter dare ampio respiro alla sua passionalità, alla sua posizione sulla sessualità ed alla condivisione delle sue esperienze.
In un’epoca lontana le dame si appartavano nelle corti come luogo di ritrovo per potersi lasciarsi andare a queste piccanti confidenze, oggi, fra le altre cose, il gentil sesso può anche partecipare al voluttuoso fenomeno mediatico delle cinquanta sfumature, giustappunto per discutere un po’ delle proprie cinquanta sfumature, magari.
Preso meramente come opera filmica “Cinquanta sfumature di nero” è veramente poca roba. Jamie Dornan nelle eleganti e sessualmente deviate vesti di Christian Grey, un uomo oltretutto dall’esilarante complesso edipico, comunica più con il gluteus maximus, l’addominale scolpito che con la sua espressività facciale, a metà strada fra un ispanico cucadores, ed una triglia lessa. E tante scene ricordano quasi quelle di Manuela Arcuri in “Pupetta” o quelle di certe mediocri soap opere latino-americane alla strenua ricerca della drammaticità più vera, che, invece, di consueto finiscono per sfociare in un registro emotivamente plateale e dalle venature involontariamente ultracomiche alla “Pomeriggio Cinque”.
Nella pellicola “si scopa molto meno forte del solito”, una cosa più alla “vaniglia”, diciamo, per la delusione ormonale di chi ha pagato aspettandosi di gustarsi una serie di amplessi con i controfiocchi; volano sul volto irritate bicchierate di champagne, cascano elicotteri, si cerca di fare i seri e si cita pure il povero Kubrick, eppure tutto ciò scatena soprattutto un effetto inconsapevolmente umoristico.
Dakota Johnson nel ruolo di Anastasia Steele non dispiace (non dispiace, sul serio, non è un pesce d’aprile questo, garantito), ciononostante la cornice in cui agisce, a tratti persino dalle tinte deprecabilmente thriller, disperde in un soffio l’impegno profuso dalla bella attrice.
“Cinquanta sfumature di nero”, tratto dal romanzo omonimo della scrittrice E. L. James, in conclusione è un gemelli, ha una doppia faccia: quella positivamente unificante, da cinque stelle (riferendosi al voto da aggiudicare alla pellicola), che può anche fungere da punto di partenza per imbastire un dialogo più approfondito sul sesso, nonché sulla sfera dei sentimenti; e quella pesantemente negativa di un film confezionato con pochissimo impegno. Tuttavia, stiamo pur sempre parlando di cinema e la valutazione finale di un film si concentrerà inevitabilmente sugli aspetti che gli sono strettamente pertinenti. Speriamo che almeno nella realizzazione del seguito di “Cinquanta sfumature di nero” tutti si diano molto più da fare o perlomeno quel macho di Mr. Grey, e la teneramente ammiccante signorina Steele, ci siamo spiegati, noh?
Gabriele Manca