In un periodo storico come questo di grave tensione internazionale, contraddistinto per giunta da talune intenzioni politicamente isolazioniste, ovviamente nel suo piccolo, sembra che caschi decisamente a fagiolo “Black Panther”, il diciottesimo capitolo cinematografico del Marvel Cinematic Universe, visto che l’ultima fatica marveliana tratta con una certa efficacia la spinosa questione delle fisico-ideologiche barriere che a poco a poco stanno maturando in vari stati del globo.
Giustappunto, la pellicola ci narra di un Wakanda (portentoso regno africano high-tech e luogo natale del principe T’Challa, ovvero l’eroe dalle feliniche sembianze Pantera Nera) dubbioso e restio ad aprirsi al mondo circostante, che sin dalla sua fondazione ha eretto rigidi sbarramenti sia fisici (in quanto sovrastato da una cupola che lo rende invisibile agli occhi esterni) che sociopolitici. Di una nazione, benché fittizia, che rispecchia molto bene l’attuale timore di una grossa fetta della popolazione mondiale verso culture percepite come possibili minatrici della serenità, quanto della sicurezza dei rispettivi paesi; ma che alla fine troverà la risoluzione di questa inquietudine nella ricerca di una programmatica integrazione che abbatta a piccoli, ma a solidi passi la paura del diverso. Anche per queste delicate argomentazioni, si ha come l’impressione che i Marvel Studios stiano cercando in qualche modo di virare la rotta su quanto fatto fino ad ora (già “Captain America: The Winter Soldier” e “Captain America: Civl War” ci avevano provato), costruendo una storia dove gli aspetti più scanzonati dell’ormai decennale franchise supereroistico vengono relegati ai margini del racconto per illuminarne soltanto quelli più drammatici. Difatti, “Black Panther” tocca persino pregnanti tematiche come la schiavitù e l’assistenza verso le fasce popolari meno abbienti, nonché scava con grande trasporto nell’interiorità dei suoi personaggi e nei loro rapporti, ove in quest’ultimo punto è centrale la sofferta linea di sangue della famiglia reale di T’Challa, una casata responsabile a volte di controverse scelte dal labile confine fra giusto e sbagliato.
Tuttavia, non sorprende che in “Black Panther” si dia ampio spazio alle emozioni più che alle puerili battutacce della maggior parte dei film predecessori dell’universo Marvel, se consideriamo che dietro alla macchina da presa ed alla sceneggiatura troviamo l’afroamericano Ryan Coogler, artefice del viscerale “Creed – Nato per combattere” del 2015, al quale collaborò oltretutto alla stesura della storia. Va pure detto che Coogler nella pellicola non si limita ad una regia meramente operaia (com’è solito in questo genere di film), ma altresì la personalizza e si cimenta in notevoli gesti tecnici (il piano-sequenza che si muove fra il primo piano ed il piano terra del casinò coreano e la battaglia in campo aperto per la supremazia in territorio wakandiano ne sono un eloquente esempio).
Chadwick Boseman, già comparso negli stessi panni in “Captain America: Civil War”, si riconferma un regale e comprensivo T’Challa/Pantera Nera. Michael B. Jordan (attore feticcio di Coogler, protagonista sia in “Creed” che nel primo lungometraggio del regista, “Prossima fermata Fruitvale Station”), è struggente nelle vesti del villain Erik Killmonger e l’interrogatoria dell’agente della CIA Everet Ross al trafficante Ulysses Klaue, interpretati rispettivamente da Martin Freeman e da Andy Serkis (gurada un po’, Bilbo Beggins e Gollum di nuovo faccia a faccia… ironia della sorte), ricorda vagamente quello del commissario Gordon al Joker ne “Il cavaliere oscuro” di Nolan.
“Black Panther” è un film che forse pecca nella trama, telefonata praticamente dal principio (sì.. pronto? Chi è?) ed in una CGI non sempre all’altezza del compito, che però ha dalla sua quanto sottolineato poc’anzi, un approfondimento del microcosmo wakandiano ed un impianto musicale che amalgama armonicamente le antiche sonorità tribali, al rap contemporaneo ed all’elettronica. TOTAL BLACK.
Gabriele Manca