A quattordici anni dall’esordio Simone Cristicchi, il fabbricante di canzoni che voleva cantare come Biagio Antonacci, si presenta al nostro appuntamento con una consapevolezza ed una maturità artistica completamente rinnovata, frutto di una lunga attività di ricerca artistica ed umana. Il punto di partenza è l’ultimo Festival di Sanremo dove l’abbiamo visto protagonista con il brano “Abbi cura di me”, una preghiera laica, come lui stesso ama definirlo, che scava nel profondo per andare oltre tutte le false convinzioni, riconoscendo come un ossimoro la vera forza nella debolezza la fragilità. Per l’occasione il cantautore romano ha presentato al pubblico la raccolta di tutti i suoi successi edita da Sony Music ed intitolata come il suo ultimo singolo, che racchiude le sue canzoni più celebri e due inediti. In questi anni l’autore di “Ti regalerò una rosa” ha intrapreso anche un’intensa attività teatrale diventando direttore del Teatro Stabile d’Abruzzo e calcando i palcoscenici più importanti d’Italia con i suoi spettacoli, tra cui il recente “Manuale di volo per uomo” diretto da Antonio Calenda. A questo si aggiunge l’impegno per il documentario “Happy Next – alla ricerca della felicità” per la regia di Andrea Cocchi dove il cantautore cerca di rispondere in maniera personale e originale alla domanda che tutti si sono chiesti almeno una volta nella vita: “che cosa è veramente la felicità?”, attraverso i racconti di diversi personaggi dello spettacolo e della cultura italiani, ma anche di gente comune: da Pippo Baudo a Gianluca Nicoletti, passando per Flavio Insinna, Mogol, fino ad arrivare a suore, filosofi, scienziati. Noi Di Domanipress abbiamo avuto l’onore di ospitare nel nostro salotto virtuale Simone Cristicchi ed abbiamo parlato con lui di musica, teatro, coscienza storica e felicità da indagare.
Hai portato la tua nuova evoluzione artistica al Festival di Sanremo conquistando il Premio Sergio Endrigo e quello dedicato a Giancarlo Bigazzi con il brano “Abbi cura di me“. Come hai vissuto questa quinta partecipazione?
«Ho vissuto tutta la settimana del festival in maniera più rilassata rispetto al passato; avendo maturato una carriera anche nel mondo del teatro, sono arrivato sul palco dell’Ariston con una consapevolezza ed una maturità artistica più completa. Ovviamente tutte le certezze si sono sgretolate la prima sera quando hanno nominato il mio nome, mi tremavano le gambe e mi sono dovuto concentrare per eseguire un’esibizione sincera ed intensa. Sono molto soddisfatto dei risultati raggiunti ma sopratutto sono felice che la platea abbia apprezzato il messaggio e che sia arrivata tutta l’emozione e la forza che ho provato nello scrivere il brano. Con “Abbi cura di me” mi sono messo completamente a nudo, e questo è un valore aggiunto, mi sono preso il lusso di poter parlare di me, di aspetti che ho vissuto sulla mia pelle. Portare ad una platea così vasta come quella di Sanremo questa dimensione intima è stata una sensazione nuova. Il brano è una preghiera d’Amore universale, una dichiarazione di fragilità ma sopratutto una richiesta d’aiuto».
Recentemente hai dichiarato di aver trovato quell’aiuto nella contemplazione…
«Si in maniera del tutto casuale ho avuto delle esperienze intense in questi ultimi tre anni; in realtà non sono andato a ricercare le risposte nella religione ma ho solo fatto delle sperimentazioni anche abbastanza estreme. Mi sono richiuso per una settimana in un monastero ed ho ripetuto l’esperienza in una baita in montagna per immergermi nella natura, nella contemplazione e sopratutto nel silenzio, un risorsa preziosa quanto introvabile. Ho capito che solo nel silenzio è possibile interrogare noi stessi e da qui poi è partita l’esigenza di aprire gli orizzonti anche verso un mondo che non è visibile agli occhi».
Hai dichiarato che il titolo del brano “Abbi cura di me” nasce da un hashtag su twitter; com’è il tuo rapporto con i social network?
«Osservo e mi confronto con il mondo dei social network con molta curiosità; utilizzo la mia pagina Facebook e Twitter per mantenere un rapporto diretto con chi mi segue, per dialogare con loro, ma sono discontinuo, non sono perennemente connesso e fortunatamente ho anche uno staff che mi aiuta con la loro gestione. I social sono mezzi di comunicazione potentissimi ma avvolte possono essere anche deleteri. Ti confesso che durante la partecipazione al Festival di Sanremo ho preso la decisione di cancellare tutte le applicazioni dallo smartphone perché non volevo essere condizionato da commenti, recensioni ed articoli che circolavano, sia da quelli positivi che da quelli negativi. Spesso stando con gli occhi incollati sui nostri dispositivi rischiamo di perdere i momenti più belli della nostra vita perché siamo troppo distratti od intenti a condividerli piuttosto che viverli direttamente. Bisognerebbe insegnare, soprattutto ai più giovani, che certe volte è bene anche disconnettersi da internet per connettersi alla realtà, quella vera, che ha tanti colori diversi da offrirci».
L’utilizzo dei social network oltre che il nostro “sguardo sulla vita” ha modificato anche l’utilizzo della parola sempre più frammentata e scarnificata. Con Roberto Vecchioni su Domanipress abbiamo parlato di come il cantautorato, che nella parola ha il suo strumento principale, sia in crisi…è così anche per te?
«Si, io ne parlavo con Morgan qualche tempo fa. Lui ha realizzato una sorta di censimento dei cantautori italiani contandone circa duecento…siamo rimasti in pochi, come una riserva indiana (ride). Nonostante il mutamento dei tempi credo che il cantautorato, quello impegnato, non morirà mai perché è una forma di comunicazione eterna, alla fine c’è spazio per tutti, anche se in radio è più difficile far passare un contenuto diverso dalle super hit. Sicuramente è innegabile che il cantautore, quello classico con il pianoforte e la chitarra è una figura che per le nuove generazioni risulta essere superato…Oggi, guardando in avanti, possiamo definire i rapper come i “nuovi cantautori” perché raccontano nei loro versi uno spaccato di realtà andando oltre il sentimentalismo, indagando spesso anche le tematiche sociali attuali».
Oltre all’impegno musicale stai realizzando il documentario “Happy Next – alla ricerca della felicità”per la regia di Andrea Cocchi dove incontri diversi personaggi dello spettacolo e della cultura per dibattere di un tema su cui l’uomo si interroga da secoli. C’è un personaggio che tra tutti ha una visione della felicità vicina alla tua?
«La realizzazione del documentario mi sta stimolando ed impegnando molto e si avvale del contributo di tanti nomi e personalità della cultura tra cui suore, filosofi e scienziati. Mi interessava l’idea di ascoltare i pareri di universi anche distanti tra di loro per poter cogliere ogni sfumatura. Ho chiesto anche ai miei fan di partecipare attivamente, invitandoli ad inviare un breve video in cui raccontano la propria idea della felicità e cosa dovrebbe fare una persona per essere felice con lo scopo di formare un grande social-movie composto da un mosaico di dichiarazioni. Comunque tra tutte la definizione di felicità che approvo maggiormente è quella di Mogol che ha affermato che la felicità è come un elettrocardiogramma con dei picchi alti, delle cadute verso il basso ed uno stato di “normalità”. Anche se la società ci impone di essere sempre felici e perfetti non si può essere sempre sul picco più alto, nella nostra vita riceviamo schiaffi e carezze per diverse ragioni, ed è giusto tornare qualche volta ad uno stadio intermedio cercando di rimanerci più a lungo possibile come degli equilibristi. Più che alla felicità bisognerebbe puntare al sentimento della gioia, perché non ha contrari. Per i mistici più importanti la gioia è uno stato d’animo che si può esercitare anche quando si ha un destino avverso, come un abbandono rispetto alle resistenze della vita; questa è una visone che approvo e che mi piacerebbe perseguire, raggiungere questo obiettivo può porre la basi per una forma di felicità più ampia e protratta nel tempo».
Einstein diceva “Se vuoi una vita felice dirigila verso un obiettivo” la musica cos’è per te?
«La musica per me più che un obiettivo è una vera e propria urgenza. Da piccolo ero un bambino molto chiuso in se stesso, che non parlava e non esprimeva le proprie emozioni ma le disegnava per potersi esprimere. L’arte, da sempre, mi ha aiutato a scavalcare la barriera che avevo messo tra me e il mondo ed ancora oggi il mio obiettivo principale è quello di riuscire a comunicare con gli altri ciò che provo».
Il tuo impegno artistico spazia dalla musica al teatro passando per la letteratura; tra queste tre forme di comunicazioni differenti in quale ti senti più a tuo agio?
«In realtà mi piace confrontarmi con forme differenti perché credo che la creatività si nutra delle differenze. Scrivere canzoni può essere più difficile che scrivere un testo per il teatro od un romanzo, perchè devi distillare il racconto di una storia in soli tre minuti mentre a teatro puoi permetterti di farlo in un ora e mezza. La musica è miracolosa sotto questo punto di vista perché riesce a condensare in poco tempo tanti concetti e a suscitare emozioni. Il teatro ha bisogno di una cura certosina ed un lavoro più lungo, ma è un luogo dove mi sento a casa e quindi posso prendermi la libertà di sperimentare e raccontare storie di cui mi innamoro».
Qualche tempo fa hai scritto un libro intitolato “Mio Nonno è morto in guerra” dove hai raccolto varie testimonianze di italiani che hanno vissuto sulla propria pelle i disastri della Seconda Guerra Mondiale…Oggi sembra che il nostro paese stia perdendo la propria coscienza storica, sei d’accordo?
«Si, innegabilmente stiamo vivendo un periodo particolare, l’individualismo imperante del “qui ed ora” lascia poco spazio alla riflessione ma ritengo che in parte dipenda anche da come la si racconta la storia. Qualche tempo fa ho messo in scena “Magazzino 18” uno spettacolo sul esodo degli Italiani dall’Istria, che ha avuto il pregio di avvicinare ad una tematica scomoda e dimenticata dalla memoria collettiva, il pubblico che non la conosceva utilizzando strumenti comunicativi nuovi che appassionano e rendendo il contenuto interessante. “Magazzino 18” è il nome del deposito situato nel porto di Trieste che conserva duemila metri cubi di masserizie, e oggetti di vita quotidiana abbandonati da un’intera generazione di italiani costretti all’esilio. Molti professori, che hanno portato i loro alunni a vedere lo spettacolo, mi hanno detto che sarebbe utile avvalersi di strumenti didattici alternativi ed accativanti come il teatro ed il musical per poter insegnare la storia e far appassionare di più i ragazzi. Inoltre sarebbe opportuno modificare i programmi scolastici, magari facendoli partire dalla storia più vicina a noi per poi procedere a ritroso».
A proposito di memoria anche nella storia della musica spesso si tende a dimenticare…Ad esempio la figura di Sergio Endrigo come dichiarato su queste pagine della figlia Claudia sembra essere stata eclissata…
«Di Sergio Endrigo non si ricorda mai abbastanza, io quest’anno al festival ho avuto l’onore di ricevere il premio a lui intitolato ed ho avuto anche il privilegio in passato di registrare un duetto per il brano “Il fabbricante di sogni” inserito anche nel ultimo album. Nel testo si racconta che esistono due modi per scrivere una canzone il primo con l’ispirazione, la magia, il cuore ed il secondo con la calcolatrice, la matematica ed il cervello. Le parole e la musica di Sergio Endrigo, invece, hanno “solo” il cuore».
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Simone Cristocchi, quali sono le tue speranze e le tue paure?
«Per vedere il domani bisogna osservare il presente, io credo sia terminata l’epoca delle gradi aspirazioni, degli slanci e delle epoee. Abbiamo il mondo a portata di mano, o meglio di click, ma spesso non sappiamo neanche cosa farcene. Ci siamo spinti anche ben oltre le nostre capacità di comprensione e ci muoviamo a tentativi, come a tastoni in una stanza buia; mi auguro che torneremo a riscoprire le nostre radici umane, ad essere attenti alle persone che ci circondano e magari e perché no magari anche a parlarci non attraverso un social network ma guardandosi in faccia. Mi auguro che si ritorni a vedere la bellezza del mondo con uno sguardo nuovo, che ci permetta di innamorarci della natura e dei nostri simili».
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Simone Intermite