Silvio Orlando è un’eccellenza indiscussa unica e rara del panorama cinematografico italiano. I suoi personaggi portati sul grande schermo e a teatro sono da sempre una fotografia del nostro paese, volti a porre una crescente domanda di conoscenza, articolata nei tanti interrogativi che la loro visione suscita; diretti da registi del calibro di Nanni Moretti, Paolo Virzì, Michele Placido, Carlo Mazzacurati, Pupi Avati e Gabriele Salvatores, sono tutti dei quadri di storia del quotidiano del nostro paese pennellati attraverso parabole espressive che in una concezione dell’arte e del cinema “fluida”, alla Bauman, dove tutto scorre senza lasciare memoria, rappresentano una significativa eccezione capaci di dare potere di pensiero a personaggi rivoluzionari e talvolta scomodi. L’ attore e regista napoletano insignito da numerosi riconoscimenti di livello internazionale tra cui la Coppa Volpi e due David di Donatello è ripartito oggi dal palco del prestigioso Teatro Franco Parenti di Milano con lo spettacolo “La vita davanti a sé,” tratto dall’omonimo romanzo di Romain Gary in cui Silvio Orlando ci conduce nelle pagine del libro con la leggerezza e l’ironia di Momò, diventando con naturalezza quel bambino nel suo dramma. Un’ opera che senza facili ideologie tra commozione e divertimento pone una riflessione attenta sul tema della convivenza tra culture e religioni diverse in cui Il mondo ci appare improvvisamente piccolo, claustrofobico e trova un senso solo nel disperato abbraccio contro tutto e tutti. Noi di Domanipress abbiamo avuto l’onore di ospitare nel nostro salotto Digitale Silvio Orlando e di parlare con lui della sua carriera cinematografica tra ricordi ed intime confessioni.
Sei tornato a teatro con una riproposizione del romanzo di Romain Gary “La vita davanti a sé”; com’è avvenuto l’approccio al testo?
«Mi sono avvicinato al testo in maniera spontanea, sotto forma di lettura al Festival della Spiritualità di Torino e sin da subito ne sono stato particolarmente travolto, mi ha parlato in maniera prepotente e ho pensato di dare a questa storia una veste teatrale. Riadattarlo per un mezzo comunicativo diverso rispetto a quello del libro è stato complicato però mi sono affidato totalmente alla scrittura così ispirata di Gary che in stato di grazia ha scritto una delle storie più intense della letteratura moderna».
Durante lo spettacolo esplori i personaggi principali del romanzo e ti soffermi con particolare interesse su Momò; cosa hai potuto capire di questo personaggio così complesso nella sua semplicità di bambino?
«Momò oltre ad essere il protagonista è portatore non solo della sua storia ma anche di un punto vista preciso in cui l’autore Romain Gary riesce a penetrare in maniera mirabile, quello di un bambino di dieci anni che vive gli accadimenti con tutte le sue paure, le sue fantasie capaci di stravolgere in maniera surreale anche i dettagli più semplici della sua vita. Sarà proprio questa sua visione la salvezza, la luce in fondo al tunnel. Attraverso Momò possiamo entrare in un universo fatto di solitudine ma anche di solidarietà e riscatto.
Quello di Romain Gary è un romanzo anche pedagogico…
«Certo, questa storia ci fa comprendere che le emozioni che pensiamo appartengano solo al nostro microuniverso in realtà sono universali…Comprenderlo significa abbracciare la diversità, è un vero atto rivoluzionario».
A proposito di adolescenza, hai avuto modo di indagare questa difficile stagione della vita anche in alcuni dei tuoi film più famosi dal papà di Giovanna, protettivo e amorevole, fino al professor Vivaldi de’ “La scuola” ed il recente Maestro Gabriele de “il bambino nascosto” di Roberto Andò, . Tu che bambino eri?
«Ero un bambino timido, chiuso in me stesso, facevo fatica ad entrare in relazione con il mondo ed in generale l’arte era il mio mezzo per comunicare le mie emozioni. Ho iniziato dalla musica che è stata una forma primordiale e poi sono passato al teatro che rappresenta la mia maturità…Volevo parlare di me ed ascoltare il mondo da una posizione “sicura” quella dell’artista».
Nel caso de “Il bambino nascosto” la purezza dell’infanzia funziona come detonatore di emozioni…
Nel film il giovane protagonista pone davanti all’adulto maestro uno specchio esistenziale dove si riflette la profonda incapacità di vivere un affetto fino in fondo e questo rapporto funziona come una chiave per aprirsi al mondo e all’amore…
Durante la tua carriera hai avuto modo di collaborare con i registi più importanti del cinema italiano . Tra tutte qual è stata la pellicola che è stata maggiormente formativa a livello umano e professionale?
«Quando per la prima volta sei il protagonista di un film e ti appresti a delineare un personaggio tutto diventa un laboratorio creativo che ti insegna molti aspetti del mestiere che è possibile imparare solo sul campo. Penso ai miei primi film e a tutti i registi con cui ho collaborato nei film “Il portaborse”, “La scuola”, “un’altra vita” pellicola non molto ricordata ma che reputo un piccolo capolavoro. Sono stati tutti portatori di un’esperienza che fa parte del mio bagaglio e per questo ne sono molto legato».
I film in cui sei stato protagonista hanno fotografato in maniera lucida la storia anche politica e civile del nostro paese. In “Ferie d’Agosto” si racconta di un’Italia divisa nettamente nei suoi ideali tra destra e sinistra. Oggi questi confini così marcati esistono ancora?
«Purtroppo no e sinceramente, se posso dirlo, me ne dispiaccio. Mentre la destra oggi continua a mantenere una sua connotazione legata ai bisogni concreti, quasi animaleschi, come l’arricchimento e la difesa di pericoli invisibili, talvolta creati a tavolino, la sinistra fa molta più fatica perché manca l’idea e la possibilità di immaginare un altro mondo possibile. L’utopia che poteva essere punto di partenza per la costruzione di ideali si è trasformata in una distopia, concetto che spesso è indagato e sviluppato anche nelle nuove serie televisive. Spesso si fa fatica a rimettere insieme i pezzi di un vaso rotto che sembra quasi impossibile da riparare. Si procede per tentativi e l’idea è quella di una sinistra che corre ancora ma che ha il fiato corto».
L’ elezione del Presidente della Repubblica è stato un chiaro segnale di come i partiti sia di destra che di sinistra siano diventati incapaci di rappresentare se stessi e soprattutto gli elettori…
«Si, in questo periodo storico stiamo assistendo a dei fenomeni che come uragani sembrano voler ricompattare e risolvere in maniera supereroistica i problemi del mondo come Trump e Putin che cercano di spostare oltre il punto di confine traghettando la destra autoritaria verso derive fascistoidi. Ciò che manca però è l’idea di un nuovo mondo alternativo».
Oggi come ieri, le nuove idee hanno bisogno di coraggiosi pionieri del pensiero e dell’azione eppure non solo in Italia si assiste ad diffuso nichilismo dove gli ideali lasciano il posto a interessi poco edificanti…
«Il mondo è tutto collegato, in Italia fortunatamente alcune dinamiche avvengono in maniera indipendente dalla politica, ci si parla al di fuori delle logiche stringenti dei partiti e questo ci aiuta. Ciò che auspico e che si ritorni ad un grado di umanità che ci faccia collaborare e dialogare per costruire le basi di un paese meraviglioso come il nostro che merita di essere guidato da una classe politica migliore… ».
A teatro hai raccontato anche la solitudine con “Si nota all’imbrunire”. Il covid con il suo conseguente distanziamento sociale ha inasprito questa condizione…
«Ogni spettacolo racconta anche di incontri, in questo caso devo molto a Lucia Calamaro, una costruttrice folle di pagine intense e complicate da portare in scena. Il mio contributo è stato dare una forma teatrale al suo universo così visionario. Quello spettacolo è stato profetico perché ha trattato un tema, quello della solitudine, che ci ha riguardato tutti. Il lockdown ci ha allontanato ed isolato, molti si sono rinchiusi in uno spazio tutto personale che ha rischiato a lungo termine di trasformarsi in una gabbia. Chi è lasciato solo dalle istituzioni ma anche dalla famiglia o dagli affetti più cari rischia di generare pensieri pericolosi, di vivere in maniera provvisoria».
Quali sono le estreme conseguenze di questa condizione sociale?
«Questa forma di rivolta individuale e di rinuncia agli altri e al mondo può assumere spesso degli aspetti autolesionistici. Per questo tengo a ribadire l’importanza di non restare da soli».
La pandemia ha anche cambiato il modo in cui si fruisce del cinema. Cosa ne pensi delle piattaforme streaming come Netflix? Favorevole o contrario?
«Per me ovviamente la distribuzione cinematografica digitale rappresenta la fine del mio mondo e del mio modo di vivere e concepire la narrazione audiovisiva che per me ha sempre coinciso con il cinema. Adesso la rotta si è invertita e sembra che la sala cinematografica sia diventata un reperto archeologico. Esattamente come accade a Pompei magari un giorno troveranno i resti di un cinema e i posteri si chiederanno quale fosse stato il suo utilizzo (ride). Nonostante questo mi auguro che questo cambiamento così veloce sia foriero di nuovi talenti che trovano nella distribuzione digitale una nuova forma d’espressione»
In Italia nel 2021 per il cinema si è registrato un decremento del 71% degli incassi e a soffrire maggiormente sono le produzioni indipendenti ed italiane…
«Nell’eterna guerra tra macchina produttiva ed autore per il momento la vittoria schiacciante è quella della produzione, sopratutto estera, che domina il mercato e che non valuta distintamente l’importanza del messaggio artistico e culturale e della creatività».
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Silvio Orlando quali sono le sue speranze e le sue paure?
«Nel mio Domani spero di non avere né speranze né paure ma di avviarmi in quest’ultima fase della mia vita verso una forma di serenità personale; mi auguro che l’ansia che mi ha accompagnato tutta la mia vita di attore si plachi e lasci il posto ad una, credo, meritata serenità».
Intervista Esclusiva a cura di Simone Intermite