La nobile arte della gastronomia è amichevole ed universale perché può superare la barriera linguistica, consolidare nuove amicizie tra persone civili e riscaldare il cuore. Lo sa bene Oscar Farinetti, patron del progetto ecosostenibile Green Pea, del visionario parco tematico bolognese Fico dedicato al cibo e del celebre brand Eataly, che in circa un ventennio è riuscito nel difficile compito di esportare, i sapori del bel paese in tutto mondo, superando i confini nazionali e riscrivendo le regole di un nuovo storytelling capace di proporre l’offerta del nostro agroalimentare partendo dal concetto che i prodotti di alta qualità possano essere a disposizione di tutti, facilmente reperibili e a prezzi sostenibili. Oggi l’imprenditore piemontese sempre attento ai temi della sostenibilità ambientale ha voluto mettere nero su bianco i ricordi della sua vita in una coraggiosa biografia senza filtri edita da Rizzoli intitolata epigraficamente “Never quiet, la mia storia“ al fine di raccontare e tramandare i valori essenziali del buon “mercante” partendo dalle prime esperienze con il padre fondatore della catena di elettronica Unieuro fino alla sua rocambolesca esperienza da leader. Noi di Domanipress abbiamo avuto l’onore di ospitare Oscar Farinetti nel nostro salotto virtuale per parlare con lui di nuovi modelli sostenibili di business e ripercorrere le tappe della sua illuminata carriera imprenditoriale tra ricordi, insegnamenti preziosi e qualche critica al sistema paese ancora troppo ostile verso chi costruisce valore.
ASCOLTA L’INTERVISTA ESCLUSIVA SUL PODCAST DI DOMANIPRESS
Sei in libreria con la biografia “Never quiet” la mia storia autorizzata “malvolentieri” come mai questo sottotitolo ?
«Ho scelto un sottotitolo sincero perché il libro in realtà non l’ho scritto io…(sorride)».
E chi è riuscito a scavare così affondo nel tuo passato?
«È stata la mia scimmietta a farlo. Lei, che vive con me, da sessantasette anni sulla mia spalla, ha deciso di vuotare il sacco».
Una scimmietta che la conosce bene e che ha raccontato aspetti anche molto privati dalla scoperta delle prime pulsioni sessuali ai numerosi traguardi imprenditoriali…
«Io, certe cose, le avrei tenute anche solo per me. Poi ho letto quelle cinquecento e passa pagine. Le ha scritte talmente bene che non me la sono sentita di vietarle l’autorizzazione».
Leggendo le pagine della sua vita, oltre i traguardi lavorativi cosa la rende davvero orgoglioso?
«In realtà non ho una gran predisposizione all’orgoglio. Preferisco essere riconoscente che orgoglioso. Lo sono verso mia mamma, mio padre, mia moglie, i miei figli, i miei tanti soci… ed ovviamente la mia fortuna».
Tra i ricordi c’è la figura di tuo padre panettiere di Alba che durante la resistenza ha salvato diversi condannati a morte…in cosa vi assomigliate?
«Gli somiglio in tante cose al mio caro papà ma purtroppo mai totalmente, mi manca molto».
Facendo una stima quali sono gli aspetti in cui ti ritrovi con lui?
«Siamo molto simili nella lealtà (90%), nel coraggio (80%), nella tenacia (70%)».
Una delle sue intuizioni più importanti fu quello di richiamare nell’insegna di un negozio di elettrodomestici l’idea europeista. Così nacque Unieuro…Quanto conta il nome di un brand per il successo aziendale?
«Sarò sincero, il nome conta zero se il progetto è totalmente sbagliato. Conta invece fino al 50% se il progetto è giusto. Il nome nasce dopo aver sviluppato un’analisi approfondita che miri a scoprire la breccia, definire il progetto ed infine individuare vision e mission. Deve essere conseguente e rappresentativo di queste fasi. Per esempio per la scelta del marchio Eataly e Green Pea abbiamo seguito con perizia queste fasi, abbiamo lanciato una serie di idee e alla fine abbiamo scelto il nome aziendale più coerente capace di funzionare nel contesto specifico».
Se il titolo del brand ha un valore relativo cosa conta davvero a livello di marketing?
«Bisogna saper raccontare la propria storia e i propri valori, come dice Alessandro Baricco un evento non raccontato è come se non esistesse e poi bisogna ricordarsi di perseguire sempre degli ideali di sincerità, studiare il prodotto in tutte le sue caratteristiche ed evitare false promesse».
A proposito di concrete promesse di vita oltre suo padre altra figura di riferimento è sua moglie…
«Più che di riferimento direi praticamente sostanziale. Lo dico fuori da ogni timidezza, senza Graziella non avrei combinato niente di buono».
Il titolo “Never Quiet” non nasconde una sana inquietudine creativa…come mai la scelta di raccontarla in terza persona?
«L’inquietudine deve essere sempre equilibrata da momenti di serenità…è necessario riuscire a trovare sempre un equilibro tra gli elementi. Eccedere in un senso o in un altro è sempre sbagliato. Il racconto è in terza persona perché l’ha scritto la mia scimmietta, ci ha impiegato tre anni ed ha parlato anche di aspetti privati della mia vita, è più facile esaminare se stessi da una certa distanza…».
Si legge che alla sua “scimietta” ha proposto la lettura di alcuni libri prima di procedere con la scrittura…
«Si, lo racconto tra le pagine del romanzo, ne ho voluti imporre cinquantatré spaziando da Gabriel Garcia Marquez a Ernest Hemingway e Cesare Pavese solo per citarne alcuni…»
Proprio la ripresa di Hemingway ha un valore importante…
«Ho adottato la teoria dei sette ottavi: come la punta di un iceberg, quando il lettore legge un buon romanzo dovrebbe avere l’impressione che sotto ci sia molto di più di quello che vede. All’inizio di ogni capitolo è inserito un grafico che riassume, come se fosse un saggio, ogni parte della storia che si riferisce ad un tema sociale e politico. Ad esempio il racconto della nascita di Eataly Roma è un’occasione per parlare della difficile burocrazia italiana»
Cosa accadde nella capitale?
«Abbiamo aperto all’Ostiense riconvertendo la famosa “astronave”, un ex ecomostro residuato dei Mondiali ’90, trasformandola in una città, pulsante di vita con oltre 23 luoghi di ristoro divisi su quattro piani. Poco prima di partire dopo aver assunto quattrocento persone un funzionario particolarmente “ligio” al dovere trova una virgola sbagliata in un condono di quindici anni prima per una porzione d’immobile che avevo già demolito e ricostruito…Ho imparato che i politici hanno molta paura dei funzionari e degli avvisi di garanzia».
Tra i vari capitoli emergono i valori che dovrebbe possedere un buon imprenditore…Oggi si parla di società benefit e del bisogno di rilanciare la PMI in ottica sostenibile. Cosa ne pensa di questa tendenza?
«Ne penso bene. Viviamo un modello sociale che si chiama “Società dei consumi”. Chi produce e commercia beni di consumo è al centro del modello. Dunque ha il dovere di operare per il bene comune, non solo per il profitto. Questo non dovrebbe essere un’idea di futuro ma un concreto presente per tutti».
Anche la digitalizzazione ha radicalmente cambiato il modo di fare impresa…Le aziende italiane sono pronte ad affrontare la sfida?
«Come avrai avuto modo di notare alcune sì, altre per niente. Purtroppo l’effetto clessidra è ben presente in Italia e non solo per quanto riguarda questo aspetto. Ma sono fiducioso che le cose cambino, credo sia solo una questione di tempo. Le aziende che non si dimostreranno sensibili alla digitalizzazione dei processi faticheranno a stare in piedi».
•Con il progetto Green Pea hai lanciato il claim: “from duty to beauty”. La sola struttura del centro commerciale green si autoalimenta grazie a pozzi geotermici e pannelli solari. A proposito di energia il ministro Cingolani ha parlato di rincari considerevoli in bolletta…Questa decisione potrebbe influire negativamente sul sentiment nazionale in merito alla cultura della sostenibilità? A che punto siamo con la consapevolezza di questi temi?
«Purtroppo per quanto ci sia molto impegno siamo ancora indietro. Per questo Green Pea ha lanciato il tema del piacere e della bellezza, che deve prevalere sul senso del dovere. Il senso generale è che dobbiamo far diventare di moda comportarsi bene. È l’unico modo per fare in fretta. È chiaro che comportarsi in modo sostenibile, sia come Stato che come singoli, costa di più. Occorre convincere la gente a pagare di più volentieri per prodotti maggiormente sostenibili».
Con il progetto Eataly hai avuto modo di viaggiare il mondo prima conquistando le grandi città italiane e poi seducendo l’estero da Seul a Londra. Qual è stato il luogo dove è stato più difficile fare impresa?
«Sicuramente Il Giappone, il Brasile e mi duole dirlo il Sud Italia. Il primo per la scarsa abitudine a mangiar italiano. Il secondo per la debolezza della moneta e i costi troppo elevati della finanza. Il terzo per lo scarso potere di acquisto».
Spesso le difficoltà degli imprenditori in italia sono legate ad una gestione burocratica eccessivamente lunga e macchinosa…
«Riguardo alla burocrazia direi che ormai non è più solo un problema di regole, il dramma è nella totale mancanza di responsabilità degli addetti. Più nessuno si vuole assumere delle responsabilità, è questo il vero problema difficile da risolvere».
Nel libro parli della tua amicizia con Matteo Renzi che ti propose anche di entrare in politica…Come mai ha rifiutato?
«Matteo Renzi lo stimo molto, e lui lo sa bene, anche se non ho capito la necessità di creare un altro partito. Non ho accettato di fare il ministro quando me lo chiese perché ero troppo impegnato sul lavoro. E poi francamente non mi sentivo consono al ruolo. Non ero sicuro di riuscire a far bene e ho preferito lasciar perdere…».
In questo nuovo scenario post pandemia c’è bisogno di una ripartenza del settore produttivo…Quali possono essere gli incentivi che bisognerebbe adottare per la ripresa del sistema economico nazionale?
«Se parla delle decisioni politiche: usare la leva fiscale per indirizzare il Paese nella direzione delle sue vocazioni. Meno tasse sul lavoro, profitti non distribuiti, esportazioni, turismo internazionale in entrata, energia rinnovabile e prodotti sostenibili, arte. Più tasse su finanza pura, utili distribuiti, grossi patrimoni ereditati, energia da fossili, plastiche monouso… Insomma avete capito».
Spesso parli di turismo e della necessità di rilanciare l’offerta del nostro paese nel mondo. Con il progetto “Fico” hai proposto una “Disneyland” del cibo ma i parchi di divertimento, sono complessi da gestire e in italia sono strutturati a partire da player internazionali come Merlin (proprietaria anche del marchio lego) per Gardaland e Parque Reunidos per Mirabilandia…Come mai nel nostro paese manca ancora la cultura per questo tipo di offerta?
«I parchi divertimento sono delle realtà complesse che muovono grandi risorse, in Italia direi che ne manca di cultura, ma mica è un discorso che vale solo in questo settore!».
L’ Italia ce la farà ad uscire dalla crisi post covid?
«Noi europei ci mettiamo molto tempo a ripartire. Recentemente sono stato in Inghilterra per ritirare un premio e posso garantirti che negli uk è ricominciato tutto con oltre il novanta percento di vaccinati. Gli inglesi hanno deciso di ricominciare, sono combattenti, in Italia si avverte maggiormente il tabù della morte, abbiamo paura».
Oltre al lavoro personalmente come trascorri il tuo tempo libero? Quali sono le tue passioni?
«Mi piace vivere la vita e ogni tanto godermela: leggo, scrivo, nuoto e soprattutto mangio bene».
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Oscar Farinetti quali sono le tue speranze e le tue paure?
«Per me è impossibile definire come vedere il Domani oggi, chi ve lo racconta bleffa, non è possibile prevedere il futuro in modo definito perché tutto cambia in maniera esponenziale e imprevedibile, occorre adattarsi minuto per minuto. Il mio Domani è un orizzonte indefinito, che sono cosciente non riuscirò mai a raggiungere, ma intanto mi incammino con ottimismo, speranza, paura ed entusiasmo. Sono pronto ad adattarmi a qualsiasi forma del futuro ed accogliere quell’orizzonte qualunque esso sia, intanto mi impegno a remare».
Intervista Esclusiva a cura di Simone Intermite