«In questo periodo storico così avaro di contenuti e visioni a lungo raggio rivendico la possibilità di esprimermi attraverso la cultura». Quando inizia la nostra conversazione Nichi Vendola, ex Presidente della Regione Puglia, è un fiume in piena che non si sottrae ad esporre le sue intuizioni e la sua interpretazione della storia presente con la dialettica vivace e pervasiva di chiara ispirazione pasoliniana che lo contraddistingue, da sempre carica di una buona dose di spirito e rigore critico. L’ occasione dell’incontro non è però la riproposizione di un nuovo programma elettorale ma uno spettacolo teatrale realizzato da Fidelio Produzioni attualmente in tournée intitolato programmaticamente “Quanto resta della notte”, un monologo ed in insieme un manifesto culturale suddiviso in sei capitoli nei quali il fondatore di Sinistra Ecologia e Libertà si muove attraverso una serie di tematiche sensibili spaziando tra femminicidio, omofobia, amore, morte, democrazia e politica utilizzando il mezzo del teatro inteso come atto politico per antonomasia, capace di rovesciare despoti e tiranni e di trasformare la lingua della tragedia in un messaggio pedagogico che si pone il nobile obiettivo di esaminare le dinamiche dell’animo umano. Nel finale dello spettacolo l’ultimo capitolo chiude il viaggio autobiografico parlando, della patria di nascita, della casa, del paese e della famiglia trovando nell’amore l’unico vero barlume di speranza. Noi di Domanipress abbiamo ospitato nel nostro Salotto Digitale Nichi Vendola per parlare con lui di politica, democrazia e libertà ripercorrendo le tappe del suo vissuto cogliendone luci ed ombre in questa Video Intervista confessione oltre il recinto della retorica.


Partiamo dal principio com’è: avvenuto il passaggio, solitamente inusuale, dal palchetto della politica al palco del teatro?

«Per me non è una novità, mi è capitato diverse volte di lasciare il palco della politica e di salire sul palcoscenico. Qualche anno fa ho interpretato “Masaniello” al Teatro Petruzzelli, in un processo in cui la pubblica accusa era sostenuta dal magistrato Giancarlo Caselli. In quel caso si trattava di uno spettacolo di tre ore, era tutto improvvisato e spontaneo. Posso dirti che sin da ragazzo il teatro è sempre stato un mezzo comunicativo a cui sentivo di appartenere, Per questo spettacolo è accaduto che dopo aver scritto un libro di poesie intitolato “Patrie”, un giovane produttore di un’importante casa produttrice cinematografica, la Fidelio, mi ha detto “ma perché non realizzi proprio uno spettacolo teatrale?”. Dopo questa proposta mi sono messo al lavoro sui temi che da sempre mi sono sempre stati cari come la disumanizzazione e la tutela dei diritti».

Qual è stata la miccia creativa che ti ha portato ad indagare temi così importanti? 

«Sicuramente Il risorgere dei nazionalismi che per me è uno degli argomenti che mi ha occupato intensamente, emotivamente, politicamente e culturalmente negli ultimi anni. In questo periodo storico viviamo in una vera e propria pandemia culturale che da Trump a Salvini passando per la Le Pen, per i nazisti in Germania, in Spagna è tornata non come un fenomeno di folclore, come un pezzo delle curve negli stadi, ma come un protagonista assoluta del nostro vivere.

Quali sono i tratti che per lei definiscono questa tendenza?

«I tratti che hanno unificato i nazionalisti di tutto il mondo: la caccia al migrante, la legittimazione della guerra e la lotta contro il diverso. Ho scritto un monologo in otto capitoli partendo da un dialogo presente nella Bibbia. In uno dei libri attribuiti al profeta Isaia si riferisce ad un  dialogo tra un viandante  e una sentinella ubicata sulle mura della città e in questo passaggio il misterioso personaggio chiede alla sentinella: “sentinella, sentinella quanto resta della notte?” ».

“E quanto resta della notte” è proprio il titolo del suo spettacolo oltre che l’incipit per un manifesto culturale articolato e profondo… ma l’arte può essere considerata un atto politico?

«Sì, con la cultura, con l’arte, bisognerebbe fare politica. Una delle tragedie della nostra contemporaneità è il divorzio che si è perfezionato tra la politica e la cultura, viviamo in un’epoca in cui la politica è impalpabile, leggera e di facili costumi; costruisce “la mossa” come nei teatri d’avanspettacolo di un tempo, legittima ogni giorno sé stessa perché vive nel presente, galleggia. Non ha passato, non ha futuro, non ha memoria e questo è drammatico. Allora, ecco la politica della disumanità è figlia anche di questa generalizzata non cultura è questa che io chiamo la notte, in cui noi fingiamo di non accorgerci che il Mediterraneo è diventato il più grande cimitero del mondo. Ci troviamo in un contesto povero di “armi di pensiero” e contemporaneamente così ricco di merci superflue e di sistemi di sterminio. Viviamo in un mondo così povero di cibo e di acqua pulita,  e soprattutto di farmaci per una parte rilevante dell’umanità eppure non sembriamo curarcene. Tutto vive in un eterno presente egoistico».

La “notte” dei nostri giorni viene dipinta a teatro attraverso una narrazione suggestiva e ricercata anche nel lessico…Per lei cosa sono le parole?

«Le parole sono la cosa materiale più importante, perché costituiscono la fabbrica del mondo, con le parole noi costruiamo le relazioni sociali, costruiamo le idee che ci rendono pacifici o ci rendono brutali e barbarici. Mettere in scena la catastrofe delle parole è fondamentale, diventa la notte della guerra, la notte dello stupro e del femminicidio, della tortura, della sconfitta e della speranza… ».

Le parole di questo spettacolo la definiscono?

«Si, questo è anche un po’ il mio viaggio, ma come in tutti i viaggi c’è sempre anche il tema del ritorno che per chi come me è un espatriato rappresenta un argomento carico di emotività. Ancora oggi per me è il sud ed è un tema politico ma anche un elemento legato alla poesia e alla nostalgia inteso alla latina come “Nost – algia” ovvero come dolore e ritorno».

Cosa rappresenta il sud per lei?

«Il sud è semplicemente la mia casa, mi ha restituito una via d’uscita dalle tenebre della notte e mi ha ridato l’alba».

Gli antichi  greci chiamavano il ritorno nostos, indicando un processo conoscitivo che al termine del viaggio restituisce un analisi critica del proprio io più profondo: in questo viaggio di sé stesso cosa ha perso e poi ha ritrovato?

«Io ho perso per strada le persone, tante persone che amavo e la morte è uno dei temi del mio monologo. È uno dei temi più aspri, più duri. La morte come esperienza che affratella il genere umano, ma anche come oggetto di rimozione, di spettacolarizzazione o di rimozione. Parlare della morte per me è molto importante, perché illumina la vita, le dà un senso, ne compie il tragitto e ci aiuta se ne parliamo a ritrovare il bandolo della matassa e ci aiuta anche ad avere più compassione di noi stessi.

Presidente, se la sua vita fosse su un libro di storia lei sarebbe probabilmente etichettato come un  homo novus, la cui carriera politica è cominciata dal basso riuscendo a conquistare le più alte cariche dello stato…In Italia è notoriamente molto difficoltoso riuscire a salire la scala sociale, lei come ci è riuscito?

«Per prima cosa ho seguito una stella cometa della carriera ma  l’istinto e il cuore. Ricordo quando sono andato a iscrivermi all’università, seguendo l’esempio dei miei due fratelli più grandi studenti di Medicina. Sembrava che quello fosse anche il mio destino, confezionato dalle ambizioni dei miei genitori. Eravamo una famiglia di condizioni sociali molto modeste. Ricordo di aver seguito la fila nella segreteria di Medicina e poi quando è arrivato il mio momento ho guardato l’impiegato e ho detto semplicemente no e mi sono diretto verso la segreteria di Lettere e Filosofia».

Quali sono stati i suoi primi lavori?

«Ho iniziato dal basso, vendevo libri e viaggiavo in diversi paesi seguendo corsi di inglese, di tedesco, di spagnolo; poi ho ricoperto il ruolo il correttore di bozze ma anche di cameriere e aiuto cuoco. Sono stato cameriere per tante stagioni estive della mia vita, vedevo i miei coetanei tuffarsi in mare e io nel bellissimo lungomare di Trani, io invece ero incarcerato dentro il ristorante in cui lavoravo. Ho svolto diversi mestieri ma ho avuto una grande fortuna: non sono mai stato invidioso degli altri che avevano maggiori possibilità. Sono partito per Roma per svolgere il servizio civile,  e ricordo che quello è stato un anno in cui ho conosciuto la fame nella sua dimensione più totale e drammatica. Dovevo vivere in una metropoli come Roma con centomila lire al mese, provvedere all’alloggio, al cibo e a tutto ciò che era necessario, però nonostante le difficoltà mi sono fatto notare: scrivevo sui giornali, partecipavo ai dibattiti pubblici, e nonostante tutto sono sempre stato un po’ pirotecnico, esplosivo e curioso. Mi piaceva parlare con le grandi menti, andavo a pranzo con Carlo Lizzani e a cena con Nanni Loy. Entravo facilmente in mondi che desideravo frequentare senza mai avere quella smania borghese di frequentare i salotti che contano, perché fortunatamente pur essendo un provinciale non ho mai sofferto di provincialismo, sono sempre stato propenso a dare un senso più compiuto alle cose che per me contano davvero nella vita».

Dopo la gioventù “pirotecnica” è arrivato l’impegno politico…

«Si, sono diventato dirigente nazionale della Federazione giovanile comunista e ho ottenuto l’Iscrizione al Albo nazionale dei giornalisti con una prova su Maradona, ed era per me paradossale, perché io sono la persona più ignorante di calcio che possa esistere al mondo, però mi è sempre piaciuto sfidare me stesso. A seguito di quell’esame lavorai nel settimanale Rinascita ed entrai nel comitato centrale del Partito comunista».

A proposito di parole oggi parlare di destra e sinistra in un contesto politico e culturale in cui i valori partitici si sono contaminati e svuotati spesso del loro significato originario sembra essere anacronistico…Esiste ancora una destra e una sinistra?

«Ho l’impressione che  la dialettica politica sia ridotta a una destra sovranista, nazionalista e fascista che si contrappone a una destra progressista. Non so se riesco a spiegarmi, perché il problema non è della destra che segue il suo obiettivo ma della sinistra che non dovrebbe rimettere al centro della lotta politica processi di emancipazione, un tempo avremmo detto di tutela della povera gente».

Secondo l’analisi di Bertinotti la sinistra ormai è morta, irrilevante, pensa solo alla sopravvivenza…

«Il vero problema è che oggi è difficile imporre determinati diritti, un tempo conoscevi quale era il domicilio del padrone adesso ci interfacciamo di fronte a grandi protagonisti sovranazionali. Dove posso trovare il signor Amazon? Come è possibile tutelare i riders dal loro sfruttamento?».

Di che cosa ha bisogno il mondo oggi secondo lei?

«Io dico che ha bisogno di giustizia sociale, di potersi riparare dalla catastrofe ecologica che incombe, di potersi curare nel ciclo pandemico in cui siamo entrati con la liberazione dei brevetti per poter dare i farmaci anche al mondo più povero; ha bisogno di parlare di disarmo per non essere prigionieri della corsa agli armamenti. Insomma, il mondo ha bisogno forse di parole nuove, ma per così dire antiche a protezione della dignità dell’essere umano».

Le lancio una provocazione: posto che la destra, soprattutto europea è particolarmente attiva ed accoglie un elettorato attivo la sinistra invece esiste ancora?

«La sinistra si vede poco, è timorosa di toccare i rapporti di potere. La sinistra americana diciamo quella di Obama o quella di Biden non riesce per esempio a smantellare lo strapotere invasivo della lobby delle armi, un paese in cui le armi da fuoco fanno strage tutti i giorni. Ecco, io dico che ci vorrebbe una sinistra che ovviamente si liberi del tutto dalla melma ideologica che è legata all’esperienza del totalitarismo, ma anche una sinistra più coraggiosa nel chiedere di abbattere il muro della precarietà che rende tante vite difficili e amare».

Presidente, continuiamo così questo gioco delle parole, se le accosto due parole molto forti e le dico “Nichi Vendola – Assolto” cosa mi direbbe?

«Ti direi che nell’esperienza di vita pubblica, soprattutto per chi opera con generosità, non c’è immunità dal rischio di inciampo giudiziario… purtroppo, lo dico perché quella delle indagini e dei processi per me è stata un’esperienza amara, un momento di emozione quando sono stato assolto e  un dramma assoluto quando ho appreso della condanna. Oggi vivo nell’attesa del processo di appello; è un’esperienza che fa riflettere, anche sull’uso delle parole, su quanto un certo giustizialismo invasato e atto ad immaginare la giustizia come un rito sommario possa fare molto male, possa ferire e far divorziare la giustizia dalla verità. Ecco perché per quello che mi riguarda l’amministrazione della legge deve incarnare anche il sentimento della giustizia in sé. Se diventa un carro armato, un mezzo cingolato che stritola la verità, allora quella è una brutta cosa, allora bisogna per quello educare ai valori del garantismo e rispettare quello che è scritto nella nostra Costituzione».

Ritiene di avere di avere fiducia nel sistema giuridico italiano?

«Diciamo che ne conosco le luci e le ombre. Ho un ricordo vivido di Antonino Caponnetto che ho avuto la fortuna di incontrare tante volte e che ha illuminato la mia vita. Ricordo che ho stretto amicizia con tanti dei più famosi magistrati italiani, sono stato legatissimo alla famiglia Borsellino e a Rita Borsellino in maniera particolare, però conosco anche magistrati al di sotto di ogni sospetto, magistrati che hanno fatto della giustizia un’esercizio sbagliato».

Nello spettacolo “Quanto resta della notte” poi alla fine le tenebre ritrovano uno spiraglio di luce nell’amore che però nel suo caso è stato una conquista. A che punto siamo con il riconoscimento dei diritti civili?

«Dipende da quanti anni hai quando ti poni questa domanda, se hai la mia età vedi un avanzamento straordinario, forse se hai diciotto o vent’anni anni sei insoddisfatto. Dipende da questo… io ho l’età per avere nozione di quanto profondo sia stato il cambiamento che abbiamo strappato con le unghie e con i denti, io sono nato così dico sempre in un mondo in bianco e nero. Lo dico perché le foto della mia infanzia sono tutte foto in bianco e nero, non c’erano neanche le parole per definite la propria diversità… l’omosessualità era una parola tabù, vietata, era senso comune che fossimo dinanzi all’insorgenza di una malattia o di una depravazione, di qualcosa da curare e condannare, quindi sono cresciuto in un mondo estremamente omofobo. Il fatto che oggi invece io sia sposato con un uomo e abbia un figlio è l’indice di una straordinaria rivoluzione che è frutto del fatto che molti,  come me, a un certo punto hanno rotto il silenzio, hanno preso a spallate il muro del pregiudizio, dello stigma, hanno tagliato il filo spinato con il quale ci volevano chiudere in un recinto e siamo usciti allo scoperto alla luce del sole, ci siamo dati coraggio… ».

 Lei è stato il primo tra l’altro a farlo anche in politica in Italia, ma questo è stato un punto di svantaggio per lo sviluppo della carriera?

«Effettivamente soprattutto all’inizio lo è stato…Io non lo racconto, sai perché? Dal giorno in cui ho fatto il mio coming out (avevo 19 anni in un paese del sud) in poi non è stata una passeggiata, ma una guerra».

Da queste parole si scorge una sofferenza che non è mai emersa…

«Non insisto su questo aspetto, perché non ho mai provato suggestione per una certa retorica vittimistica e poi perché penso sempre a quando ero parlamentare  e soprattutto a quei colleghi  che erano dei repressi nascosti, che vivevano con il terrore di essere scoperti, che si rifugiavano nei cinema porno. Avevo un po’ di pietà per loro ed ero felice della mia vita. Certo ho pagato un prezzo ma è stato la chiave della mia libertà e quindi lo ripagherei tutti i giorni».

Di fatto  questo prezzo per la libertà poi è ciò che effettivamente ha parlato anche direttamente al cuore degli elettori. Lei è stato portavoce di diversi tipi di lotte da quella alla mafia fino a quella culturale per la Regione Puglia. Sono stati anni di grande cambiamento ma è bastato uno scivolone, quella “famosissima chiamata,” che in un batter d’occhio ha radicalmente cambiato tutto il percorso…

«Non ha cambiato molto, credo di essere uno dei pochissimi politici che in qualunque parte d’Italia può passeggiare che viene accolto con affetto… perché poi la gente ha un sentimento che le consente di capire chi ha di fronte, no? Ha un istinto, si capisce che io non sono un corrotto, non sono una persona che si sia piegata a nessuno tipo di potere, del resto la cosa curiosa di quella vicenda di cui naturalmente evito di parlare finché non si concluderà definitivamente il procedimento giudiziario è che sono coinvolto nella relazione con un’impresa, con un imprenditore della più grande fabbrica d’acciaio d’Europa senza che nessuno abbia mai potuto rimproverarmi neppure di aver preso un panettone, neanche un euro di finanziamento lecito o illecito, quindi anche questo mi fa dormire tranquillo, perché poi credo che la verità rende liberi dal peccato».

Questo suo messaggio arriva a chi  continua a seguirla e anche i teatri pieni a fine spettacolo registrano un alto gradimento, ma  preferisce parlare allo spettatore o all’elettore?

«, voglio precisarlo non riempio un teatro per candidarmi,  sono stato eletto cinque volte in diversi consigli comunali, in parlamento, anche se la quinta volta mi sono dimesso immediatamente… Oggi ho 63 anni, un figlio piccolo da accudire e non ho questa ambizione…».

Qual è la sua attuale ambizione allora?

«Quella di parlare, di dire quello che penso, di farlo nelle forme che sono quelle della scrittura poetica, del giornalismo e oggi anche della scrittura in teatro. Credo che possa essere soddisfatto nel ribadire di non esser stato chiuso nel silenzio».

Cos’ è il silenzio?

«Il silenzio è una dimensione importante nella vita privata quando è preghiera, quando è riflessione sulla morte, ma poi in un mondo in cui le parole sono importanti servono a giudicare le cose, servono per il discernimento. Oggi credo che la mia missione sia questa».

Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani”  Nichi Vendola quali sono le sue speranze e le sue paure?

«Sono giorni, settimane, ore in cui è difficile trovare parole che possano alludere alla speranza per il Domani… vediamo l’orrore del massacro di Buča, il precipizio della guerra e la mattanza nella povera nazione Ucraina. Contemporaneamente la reazione del mondo ha una dinamica di guerra e una rincorsa a sempre più armamenti che mi toglie il fiato, mi sembra una spirale demenziale, mi aggrappo all’unico leader in cui mi riconosco oggi nel mondo che è Papa Francesco, mi aggrappo alle sue parole che sono l’unica profezia; i profeti antichi avevano questo ruolo, dicevano il male per spingere al bene, evocavano il male non perché erano delle Cassandre, ma perché si potesse avere coscienza cognizione del male, decidendo di produrre un cambiamento. Vedo oggi che a fronte della guerra, le buone intenzioni su una retorica transizione ecologica tornano indietro e mi spavento perché la comunità scientifica internazionale ci ha dato ormai pochi anni di tempo, prima di rendere irrimediabile la catastrofe del pianeta, la devastazione della biosfera… lo spreco che mette in causa il vivente è un problema che meriterebbe di essere affrontato veramente con una urgenza… è stata cancellata quella ragazzina Greta dal rumore delle bombe e mi inquieto e tuttavia proprio dinanzi all’orrore, dinanzi al cinismo, al cattivo realismo, alla rassegnazione o al fatalismo… penso che bisogna piantare dei semi.
I primi semi sono le parole giuste, le parole dell’umanità; per esempio ricordare a tutti che i profughi come quelli che stiamo accogliendo sono le vittime delle bombe russe; che tutti i profughi vanno accolti, che non sono dei turisti che prendono i taxi del mare, che la propaganda politica sulla testa di chi fugge dall’Afghanistan, dall’Iraq, o dallo Yemen, piuttosto dalla Libia o la Siria sia un esercizio di disumanità che fa vergogna. Ecco spero in un Domani fatto di parole che rimettano al centro il sentimento pieno dell’umanità e della fraternità».

Intervista Esclusiva a cura di Simone Intermite

 

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Direttore editoriale del portale Domanipress.it Laureato in lettere, specializzato in filologia moderna con esperienza nel settore del giornalismo radiotelevisivo e web si occupa di eventi culturali e marketing. Iscritto all’albo dei giornalisti dal 2010 lavora nel campo della comunicazione e cura svariate produzioni reportistiche nazionali.