L’architettura è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione ma è anche la forma del nostro habitat naturale in cui viviamo quotidianamente. Per Massimiliano Fuksas, Archistar, urbanista e designer di fama internazionale le forme del vivere diventano arte e si esprimono senza scendere a compromessi in creazioni famose in tutto il mondo dalla Vienna Twin Tower, passando per gli spazi moderni della Fiera Milano Rho, il  Center for Peace di Giaffa commissionato dal Premio Nobel per la pace Shimon Peres e il terminal dello Shenzhen Bao’an International Airport solo per citarne alcuni dove spazio, natura e uomo dialogano in un equilibrio pulito, lineare e funzionale. Il suo stile inconfondibile unito al suo impegno sociale e politico lo hanno elevato nell’olimpo delle eccellenze mondiali trovando la fonte della creatività nelle arti figurative e nella filosofia del caos e le frequentazioni illuminate con nomi come  Pierpaolo Pasolini, Giorgio Caproni e il suo maestro Bruno Zeni. Noi di Domanipress abbiamo avuto l’onore di ospitare nel nostro Salotto Digitale Massimiliano Fuksas per parlare con lui del suo primo approccio al design, degli incontri con i grandi committenti internazionali e del suo rapporto fuori da ogni narrazione  retorica con la transizione ecologica e le nuove tecnologie.

Iniziano questo dialogo come quando si costruisce un palazzo, partendo dalle fondamenta. Le sue radici affondano in culture diverse, la sua è una famiglia cosmopolita nasce da un padre medico lituano di religione ebraica emigrato in Italia tra le due guerre mondiali e un’insegnante di filosofia cattolica di origini francesi ed austriache…Questa diversità culturale quanto è stata importante per la sua formazione?

«Le mie origini sono piuttosto eterogenee e appartengono a culture e tradizioni profondamente diverse tra di loro. Prossimamente approfondirò questo aspetto in un libro che attualmente è in fase di scrittura. Ho avuto la fortuna di ritrovarmi in una famiglia dove si praticavano cinque religioni diverse, scegliendo di non seguirne nessuna. Mio nonno, Michelas Moshe, era lituano ed il mio bisnonno invece era un abile viaggiatore, un mercante di sale, un mestiere che nell’800 era particolarmente redditizio e che reca un fascino particolare. Mia nonna, da parte di madre, invece era tedesca e suo marito era estone. Posso dirti che conservo questo meltingpot culturale con fierezza e credo che mi abbia guidato nella vita anche inconsapevolmente».

A proposito di strade, lei non ha pensato da subito di poter diventare un architetto…

«Io volevo solo essere un’artista, esprimermi in una forma d’arte che potesse dialogare con il mondo, questa era la mia reale intenzione. Poi l’evoluzione del tempo mi ha condotto su un’altra strada».

La vocazione artistica però non l’ha mai abbandonata ed è diventata una fedele compagna della sua vita oltre che una cifra stilistica della sua architettura.

«Si, non ho mai smesso di dipingere, spesso anche in maniera clandestina, nei ritagli di tempo. A questo tengo a precisare che quasi tutti i miei lavori di architetto partono da un’immagine che è sempre molto vicina al mondo dell’arte figurativa. In questo credo che non ci siano differenze sostanziali tra arte ed architettura perché ovviamente l’architettura può essere essa stessa arte».

Com’ è arrivato dall’arte alla Facoltà di Architettura?

«La scelta di frequentare la Facoltà di Architettura all’università la devo attribuire, come spesso accade nella vita, a mia madre. Mio padre è morto quando avevo solo sei anni e con lei ho maturato un rapporto profondo ed intenso. Finiti gli studi al liceo, decisi di andare a vivere da solo, aprendo uno studio nel quartiere ebraico di Roma e sostenendomi economicamente con alcuni dipinti che avevano trovato il favore di alcuni clienti che apprezzavano la mia arte. Quando giunse il momento di decidere quale facoltà intraprendere dissi a mia madre che avrei voluto continuare a studiare materie dell’ambito artistico ma lei fu contraria e mi disse una frase che ricordo ancora oggi: “Vedo l’ombra del fallimento alle tue spalle”. In questo la sua predizione del futuro sembrava molto shakespeariana ma questa era una prospettiva che avevo intuito anch’io, quindi per primo approccio pensai di seguire le sue orme di insegnante e di iscrivermi alla facoltà di Lettere e Filosofia, ma lei me lo sconsigliò quindi poi scelsi architettura»

Ricorda com’ è stato il suo primo approccio?

«I primi due anni sono stati estremamente faticosi, cercavo di superare gli esami in fretta per potermi dedicare alle mie passioni. Ero considerato uno dei peggiori studenti del mio corso …tra le mie materie preferite c’era la storia dell’architettura, ho avuto la fortuna di avere degli insegnanti come Bruno Zevi e Paolo Portoghesi che mi hanno trasmesso l’amore per la materia e hanno nutrito il mio interesse in quel periodo esortandomi a continuare gli studi. Dopo aver superato il biennio con una sessione anticipata ho iniziato a ritagliare del tempo per viaggiare».

Il viaggio visionario attraverso le opere è parallelo a quello reale on the road…

«Girare il mondo è da sempre una mia passione. Ho iniziato da giovanissimo in autostop, mi affascinava scoprire orizzonti nuovi e studiare sul campo culture diverse. Un soggiorno a Londra fu per me illuminante, mentre lavoravo in pub come lavapiatti incontrai un amico che mi indirizzò ad un laboratorio chiamato Arcigram dove si realizzavano collage, realizzazioni in 3d e progetti particolarmente utopici per quei tempi. Mi innamorai subito ed iniziai a collaborare con entusiasmo con loro».

A proposito di socialità oggi a, seguito di una pandemia che ha sovvertito le nostre priorità che ci ha fatto concepire gli spazi interni, anche attraverso lo smart working, in maniera differente, com’è cambiata la concezione di architettura? Qual è il suo reale compito a cui è chiamata ad assolvere?

«Per capire il nostro presente è bene partire dal principio. Gli antichi greci avevano indentificato nella città un luogo eletto per l’attività sociale e politica e l’avevano trovato un sistema perfetto dividendo lo spazio vitale in tre parti. C’era la città alta, l’acropoli, che accoglieva la residenza del Re, luogo della difesa e del potere, quella mediana pensata per la vita sociale dell’agorà e infine quella bassa dove risiedevano artigiani e commercianti e che ad Atene si sviluppava fino al Pireo. L’architettura è sempre stato uno strumento per organizzare la vita degli altri. In principio si è partiti dagli edifici sacri che erano eretti dagli stessi abitanti, ma che avevano la supervisione dei primi architetti del tempo, uno di questi sotto il dominio di Pericle ad esempio era Ictino. La città sviluppata ed intesa nel senso moderno è stata pensata a partire dall’800 quando a seguito della rivoluzione industriale si è avvertita la necessità della costruzione di un luogo abitativo e residenziale che non avesse solo una funzione amministrativa politica ed istituzionale».

In questo, quanto l’ambiente circostante e le città in cui viviamo ci condizionano?

«La città intesa come luogo dove si abita è fondamentale perché a seconda della casa in cui vivi ed il luogo in cui può essere ubicata è possibile acquisire, anche in maniera del tutto inconscia, delle varianti sociologiche importanti intese come pregi e difetti di quello spicchio di mondo in cui ci si ritrova…».

Universalmente anche l’architettura non ha avuto attenzione e rispetto per l’ ambiente circostante…oggi invece si parla di transizione green e di costruzioni ecosostenibili. Qual è la sua idea rispetto questo tema?

«Noi uomini non abbiamo tenuto cura del nostro habitat, l’abbiamo sfruttato, martoriato e distrutto quasi totalmente. Mi viene in mente l’esempio emblematico della Sardegna ricca di boschi che sono stati per legge eliminati per costruire le città seguendo il modello post unitario che è stato causa di molti scempi naturali nel nostro paese. Roma, Firenze e Napoli furono le prime città a subire questo cambiamento edilizio con un modello di città imposto dall’alto che non teneva conto dell’ambiente circostante».

Qual è stato l’ archetipo primario?

«Il modello seguito era quello francese, importato per la prima volta a Torino e tradotto in modo molto più povero dal punto di vista dei materiali ed esportato in tutta Italia in maniera massiva e spesso poco pensata. Anche in Toscana i boschi sono stati distrutti per essere convertiti in uliveti e terreni coltivati. Oggi invece c’è una coscienza diversa, più consapevole perché siamo diventati otto miliardi ed abbiamo capito che le risorse naturali a nostra disposizione, dall’acqua all’aria che respiriamo sono limitate e occorre quindi tutelare l’esistente per non rischiare di trovarsi in una situazione critica tra qualche decennio».

Rispetto alle sue opere come intende oggi il rapporto con l’ambiente?

«Non mi interessano i discorsi teorici o le azioni volte ad un mero “green washing” delle coscienze. La sostenibilità come diceva Alessandro Manzoni: “O ce l’hai o nessuno te la dà”. Quelli che parlano molto di sostenibilità sono paradossalmente i primi che poi non non la seguono o la utilizzano per meri fini commerciali o di immagine»

Per alcuni architetti la sostenibilità è diventata un marchio di fabbrica

«Io non ho mai sbandierato l’interesse per l’ambiente che metto nel mio lavoro eppure è da sempre per me un tema di fondamentale importanza. Quando realizzo un edificio parto  dalla concezione del risparmio in termini di risorse. Ad esempio pongo molta attenzione per il risparmio dell’acqua che ritengo essere una delle risorse più importanti, vitale per la nostra specie».

Alcune sue produzioni passate accoglievano degli accorgimenti che potrebbero essere definiti green ante litteram…

«Nel Palazzo dei Congressi di Roma molti guardano con interesse la famosa “Nuvola” e la sua struttura sospesa senza contare che sopra sono stati installati oltre cinquemila metri di fotovoltaico in vetro e wafer di silicio e il condizionamento dell’aria avviene tramite pompe di calore reversibili, equilibrate mediante scambio di tipo geotermico con l’acqua del vicino lago artificiale dell’EUR, assicurando il comfort degli ambienti in estate ed inverno, il raggiungimento di prestazioni energetiche elevate e, contemporaneamente, la riduzione del consumo di energia elettrica. Inoltre è presente anche un sistema di raccolta dell’acqua piovana, filtrata e recuperata in particolari serbatoi di stoccaggio. Per la Fiera di Milano-Rho invece abbiamo ricevuto un premio relativo alla sostenibilità con il New Trade Fair ed anche per il progetto del centro ricerche della Ferrari si è pensato di realizzare la struttura in ottica sostenibile rispetto all’ambiente e all’utilizzo delle risorse naturali. Queste sono sensibilità che senza troppe pubblicità sono da sempre nelle mie corde. Non è piantando un albero che si risolve il problema ambientale…».

In tutti i recenti programmi politici si trova spazio per il tema dell’ecosostenibilità questo corrisponde ad una reale capacità di rispondere al problema?

«Quasi tutti i sindaci millantano di voler piantare alberi nelle città per dare una parvenza di interesse all’ambiente ma credo che questa sia un’azione oltremodo ridicola perché spesso alla base manca un vero e proprio censimento degli alberi che può comprendere una forestazione consapevole ed utile all’ambiente. Se noi piantiamo in maniera casuale alberi senza conoscere l’evoluzione temporale e le caratteristiche della flora pre esistente sul territorio è inutile piantumare per qualche promessa elettorale. Parigi è una città meno verde di Roma e Milano ma la forestazione è da sempre realizzata in maniera cosciente sostituendo gli alberi più vecchi alla fine del loro ciclo vitale tendo conto del microclima e di una serie di caratteristiche legate al territorio. In Italia invece anche questo aspetto è trattato in maniera sommaria e superficiale»

In questi giorni è partita la sessantesima edizione del Salone del Mobile nella celebre sede della fiera di Milano-Rho che porta la sua firma e che non manca di incantare i visitatori provenienti da ogni parte del mondo. Cosa ricorda della sua creazione?

«La fiera di Milano- Rho è stata pensata esattamente vent’anni fa ed è stata realizzata battendo ogni record temporale italiano con una realizzazione avvenuta in ventisei mesi per oltre un milione di mq. Anche in questo caso, ancor prima delle mode abbiamo realizzato un’ opera a tutela dell’ambiente. Nell’aria in cui oggi è presente la Fiera era ubicato una delle peggiori raffinerie d’Italia che cospargeva i suoi miasmi nell’aria che arrivavano fino a piazza Duomo. La bonifica di quel terreno e l’eliminazione dell’industria petrolifera ha permesso un cambiamento di qualità dell’aria e della vita. All’interno della struttura in ottica green abbiamo piantato svariate tipologie di piante. Tutto il progetto per la nuova Fiera di Milano è stato ispirato alla necessità di ordinare il percorso tra vari settori, realizzando un tessuto di architettura, natura e vita in cui le strutture di vetro e acciaio, allineate, riflettono e raddoppiano gli alberi, l’acqua e i visitatori».

Uno degli aspetti che colpiscono maggiormente sono le linee curve che richiamando le montagne sullo sfondo e le natura rigogliosa inserita in un contesto postmoderno…

«C’è una comunicazione costante di elementi naturali. Tra tutti gli alberi mi affascinano maggiormente le querce americane che a seconda delle stagioni cambiano il colore delle foglie dal verde al rosso al giallo. L’ attenzione alla sostenibilità in questo per me come ti dicevo prima è stata manzoniana».

Lei ha realizzato progetti in tutto il mondo e per questo le è stato attribuito l’appellativo di Archistar. Ma quali sono gli ingredienti del successo?

«Per realizzare un buon progetto sono indispensabili tre elementi che devono collimare tra di loro. Dialogare con un buon committente, che sia illuminato sulle scelte da compiere, un impresa che sappia costruire nel giusto tempo ed un buon architetto…ma di quelli se ne trovano…».

A proposito di committenti illuminati, oltre a far dialogare natura ed architettura qualche tempo fa per la volontà di Shimon Peres la sua arte è riuscita ad essere mezzo di dialogo per culture diverse con il famoso Centro per la Pace.

«Il cliente era il Premio Nobel per la Pace Shimon Peres, un missionario ed un politico con una visione aperta del mondo. In Israele è stato l’unico e finora l’ultimo leader ad adottare un atteggiamento apertamente ottimista e favorevole al dialogo con la Palestina. La sua visione per il Centro della pace di Tel Aviv era quello di costruire un luogo eletto per far dialogare i popoli».

Com’è stato il suo rapporto con il Premio Nobel Shimon Peres?

«Di grande stima reciproca. Pochi mesi prima di passare a miglior vita Peres mi ha chiamato per darmi appuntamento nel luogo dove sorge ora la struttura, ricordo che a novantadue anni aveva una mente lucida e visionaria, cenammo insieme e parlammo a lungo del suo operato e della volontà di creare una costruzione che rappresentasse il tempo e la pazienza. Ci siamo affacciati dal terrazzo e abbiamo guardato il mare. La mia idea era quella di chiudere i lati e di inserire una vetrata verso il mare come elemento di congiungimento. Una scelta inusuale per un centro dove tenere conferenze dove è stato anche difficile inserire gli schermi ma quell’idea aveva un scopo politico concreto».

Qual era lo scopo ideologico che si era prefissato?

«Quello dello sguardo rivolto verso il diverso, tutta l’attenzione è rivolta fisicamente oltre che metaforicamente verso il mare e se c’è qualcuno che avrà bisogno di aiuto, come un emigrante senza bandiera ne colore, noi dalla posizione del Centro della Pace siamo chiamati ad aiutarlo, a tendere una mano. Questo era il senso primario»

Il mare come punto d’approdo, sembra quasi essere all’opposto rispetto alla concezione del chiudere i porti…

«Esattamente il mare è il luogo prediletto dell’accoglienza non della chiusura. Shimon Peres non a caso ha chiamato il progetto Center for Peace & Innovation perchè secondo lui non c’è pace senza innovazione, non c’è innovazione senza democrazia e non c’è democrazia senza innovazione».

A proposito di innovazione accanto alla trasizione green c’è anche quella digitale. I suoi studi sono particolarmente avanzati e studiati in ottica 4.0, cosa ne pensa di questo cambiamento epocale?

«Il nostro paese è estremamente arretrato, non abbiamo le infrastrutture per poter reggere il cambiamento. Tra poco dovrò recarmi a Pantelleria e sono consapevole che in quel luogo, come in tanti altri posti d’Italia le connessioni sono inesistenti e per poter accedere a internet dobbiamo fare salti mortali per parlare con il resto del mondo. L’Italia è un paese estremamente complesso ricco di barriere naturali, che necessità di una connettività banda larga che tenga conto di tanti fattori differenti. Ad oggi mancano le infrastrutture digitali, prima di parlare di 4.0 dovremmo realizzare un censimento capire quali sono i punti di debolezza e poi parlare di transizione digital. Nei nostri studi abbiamo macchinari straordinari ma alcune volte non è possibile utilizzarli in alcuni luoghi e questo ci limita rispetto agli altri paesi europei. Adesso è necessario pensare alle strade digitali».

Come dicevano i latini Primum vivere deinde philosophari.Quali sono le azioni da compiere nell’immediato futuro?

«In Italia sembra si ragioni per parole chiave più che per obiettivi concreti. Bisogna avere il coraggio di cambiare le cose dal profondo. L’attenzione all’ambiente è qualcosa che mi appartiene oltre lo slogan, e dovrebbe essere così per tutti appartenere alla nostra quotidianità e alle nostre scelte concrete dal mangiare allo scegliere determinati beni di consumo…altrimenti tutto si traduce in un sistema fastidioso di cui non riesco più sentire parlare»

Quale priorità secondo lei hanno maggiore urgenza?

«La verità e che dobbiamo dotarci di infrastrutture all’altezza ad esempio Roma ancora non ha un sistema di smaltimento di rifiuti ed ovviamente anche di raccolta. I nostri rifiuti potrebbero essere oggi addirittura una risorse e produrre energia, così come accade negli altri paesi, invece in Italia siamo fermi al puro concetto».

Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani”  Massimiliano Fuksas quali sono le sue speranze e le sue paure?

«Guardare al passato e al presente è estremante facile mentre è impossibile prevedere il Domani. Il futuro rispetto alla nostra prospettiva presenta sempre un incognita indefinita, un cambiamento nonostante le conoscenze, le macchine sempre più potenti come teorizzava il matematico Edward Norton Lorenz c’è sempre una variabile che può cambiare la vita. Il Domani per me è questo una grande incognita. Sappiamo quando siamo nati ma per fortuna non possiamo sapere quando non ci saremo più. Dico per fortuna perchè altrimenti avremo l’angoscia per qualcosa che giunge al termine, invece tutti noi viviamo nell’assoluta incertezza del tempo a nostra disposizione. C’è in tutto questo una speranza l’uomo con il suo ingegno e la scienza ha sempre aumentato la sua presenza sulla terra in termini di tempo e spazio per questo dobbiamo riservare a noi stessi una sana di dose di cauto ottimismo».

Intervista Esclusiva a cura di Simone Intermite

 

 

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Direttore editoriale del portale Domanipress.it Laureato in lettere, specializzato in filologia moderna con esperienza nel settore del giornalismo radiotelevisivo e web si occupa di eventi culturali e marketing. Iscritto all’albo dei giornalisti dal 2010 lavora nel campo della comunicazione e cura svariate produzioni reportistiche nazionali.