Nel suo ultimo libro “Il giro dell’oca” prendendo spunto dal “topos” letterario di Oriana Fallaci scrive un dialogo con un figlio mai avuto…In questo confronto diretto emergono tanti aspetti della sua vita; è stato doloroso rievocare certi ricordi? Ce n’è uno in particolare che avrebbe voluto cancellare? Spesso si pensa che il tempo lenisca e modifichi in meglio il ricordo…
«Lo spunto di un figlio mai avuto, eppure presente e incarnato, mi è venuto da una rilettura di Pinocchio, che faccio di tanto in tanto per gustare la lingua italiana di Collodi.
I ricordi per me che li scrivo diventano storie, una materia asciugata dal passaggio attraverso il vocabolario. In questo modo invece di smussarsi restano intatti, su di loro il tempo non agisce più con i suoi benefici di erosione. Il rapporto con i ricordi per me non è di nostalgia, non ho desiderio di tornare indietro, né di negazione. Accetto del passato il bene e il male, come cerco di fare col presente».
Rivolgersi ad un figlio, seppur immaginario, conduce inevitabilmente all’idea di un incontro e di uno scontro generazionale; la generazione di oggi è molto differente da quella degli anni raccontati nel libro, i momenti di collettività e di ideali da preservare sembrano, quasi, non esistere più.. Qual è il suo pensiero? Si sente più ottimista o pessimista rispetto alle nuove generazioni?
«Un figlio, questo figlio è una controparte, con spirito di contraddizione e impulso di critica. È quello che sono stato con mio padre.
Oggi la gioventù non alza il dito contro gli adulti, gli anziani e il loro potere per una ragione per me semplice e chiara: questa gioventù è minoranza compressa di una società di vecchi. La mia gioventù è stata maggioranza, nata dall’istinto di ripopolare dopo la catastrofe della seconda guerra. Eravamo una quantità eccedente perfino la quota assorbita dal servizio militare obbligatorio. Ci sentivamo forti e questo alimentava il nostro diritto di critica. In fondo tra generazioni si stabilisce un rapporto di forza».
Il titolo del romanzo mette in evidenza il fatto che la vita sia un gioco in cui la vera libertà è quella di scegliere se lanciare o meno i dadi…lei ha sempre rilanciato?
«Io mi sono sentito mosso dalle circostanze del tempo. Sono stato partecipe dell’ultima generazione rivoluzionaria del 1900 perché era la mia e non stava più sul marciapiede ma camminava in massa al centro della carreggiata. Sono stato camionista, volontario nella guerra di Bosnia perché era tornata la guerra in Europa, e non ce la sentivamo di starcene con le mani in mano. Ho fatto per venti anni mestieri da operaio perché quella era la mia possibilità di lavoro. I dadi li gettava il tempo e le sue vicende al posto mio, spostandomi nelle sue caselle. Il figlio invece da credente vede la mano di un disegnatore di destini, scorge un progetto che governa le vite».
I suoi libri sembrano quasi sempre partire dal dolore in “Il peso della farfalla” il punto focale è la solitudine, ne’ “Il giorno prima della felicità” la seconda guerra mondiale solo per citarne alcuni; Cesare Pavese diceva che “La letteratura è una difesa contro le offese della vita” si trova d’accordo con questa osservazione? Che cos’è la letteratura e la scrittura per lei?
«Il peso della farfalla è una storia sulla fine delle forze, sulla diversità di affrontare la morte da parte della persona umana e da parte della persona animale. Non c’entra per me il dolore ma la lucidità di fronte al presente.
La letteratura per me lettore è un modo speciale di tenermi compagnia. Non ha funzioni terapeutiche, non cura, non attenua. Mi allarga il campo e il vocabolario. In certe circostanze difficili, nell’assedio di Sarajevo degli anni ‘90 la poesia è stata una risorsa per interrompere l’accerchiamento, perciò si facevano a lume di candela serate di poeti che parlavano di temi filosofici e leggevano versi ai cittadini».
A proposito di scrittura qualche anno fa è stata istituita la Fondazione Erri de Luca che raccoglie il corpus dei suoi materiali autografi… Come si sviluppa il suo laboratorio creativo in fase di scrittura?
«La Fondazione, voluta da amici e presieduta dalla signora Paola Porrini, si occupa principalmente di raccogliere documentazione sulle odissee del Mediterraneo e con dei fondi ricevuti da donatori distribuisce borse di studio a studenti che vengono da storie di esilio.
Non posso dire di avere un laboratorio di scrittura. Scrivo su quaderni a righe storie che escono alla lentezza e al fruscìo della penna su carta. Non scrivo seduto ad un tavolo ma sulle ginocchia. Scrivo prima che spunti il giorno. Scrivo dopo che ho fatto le mie letture mattutine. La lettura ha la precedenza nel mio tempo, sono più lettore che scrittore».
C’è un autore nella storia della letteratura italiana o straniera che apprezza maggiormente e a chi le piace fare riferimento?
«Preferisco i poeti e tra questi preferisco Marina Zvetaeva. Considero Borges l’unico scrittore obbligatorio del 1900».
Oltre alla scrittura è particolarmente importante il suo impegno a favore dell’integrazione…parola che ultimamente evoca “paura”. Qual è il suo giudizio in merito alla chiusura dei porti ed i recente “decreto sicurezza”? L’Italia segue la scia della politica di Trump?
«Le chiusure e le paure sono disturbi del comportamento, l’Italia attraversa un passaggio più clinico che politico. Paure inventate vengono sentite come realtà, in psichiatria si definiscono paranoie. Ci si affeziona alle proprie, ma ho fiducia nel fatto che gli Italiani sono incostanti e si disaffezionano presto degli imbonitori di turno appollaiati sul trespolo da pappagallo del potere».
Il suo impegno per il sociale è stato spesso oggetto di critiche e gli è costato, come nel caso del “No tav”, anche un’ accusa d’ istigazione a delinquere poi decaduta…tuttavia sui social network c’è stato un grande appoggio con l’hastag #IostoconErri. Qual è il suo rapporto con la rete. I social sono i nuovi luoghi dove manifestare il dissenso?
«Nel caso del processo posso dire di essere stato difeso dai lettori e dalle centinaia di sedute di pubblica lettura organizzate spontaneamente da loro, da librai, da cittadini. La mia difesa si è svolta fuori dall’aula e per quella difesa ho scritto “La parola contraria”.
Una volta mi chiedevano articoli per i giornali, poi hanno smesso. Allora uso twitter, brevi appunti sul fatto che mi sta a cuore e mi accorgo di raggiungere più ascolto di quanto potrei con gli organi di informazione.
Non leggo però i commenti alle mie opinioni, non rispondo a insulti che mi vengono segnalati né a notizie false sul mio conto. La rete elettronica è a strascico e trascina con se il torbido del fondo».
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Erri De Luca, quali sono le sue speranze e le sue paure?
«Le paure si sono lentamente disintegrate nel corso della mia vita e oggi sono una specie estinta nel mio sistema nervoso. Ho conosciuto e superato quelle del 1900. Quelle in circolazione oggi non attecchiscono.
Non sono un estimatore delle speranze. Mi convinse a trascurarle una frase di Virgilio nell’Eneide :” La sola speranza per dei vinti è non avere alcuna speranza”. Cioè la disperazione è la sola forza motrice che offre una possibilità di salvezza. Quando so di una madre che con suo figlio in braccio sale di notte su un canotto stracarico di persone, lanciato a palla persa sopra il mare, capisco che la disperazione è l’unico motore in grado di vincere perfino l’istinto materno. Credo alla forza delle disperazioni, non alle speranze».
Simone Intermite