Da anni vediamo le strade delle città invase da scritte e disegni che ricoprono i muri e regalano colore al paesaggio urbano; per alcuni si tratta di vandalismo, per altri di arte.
Di notte infatti, figure dal volto coperto si aggirano per la città, muniti di marker e bombolette, alla ricerca di un muro libero da poter riempire stando sempre attenti all’arrivo delle forze dell’ordine. Nonostante nell’ultimo periodo stia diventando un fenomeno più pop, le radici di questo movimento affondano nel vandalismo, e fare graffiti è a tutti gli effetti illegale.
Per capire meglio le dinamiche interne al mondo dei graffiti, abbiamo incontrato Pawk, un writer che opera principalmente tra Monza e Milano.
Quanto tempo fa e in che maniera ti sei avvicinato a questo mondo?
«Un giorno su youtube mi misi a vedere dei video di Ghost, un writer famoso, fatti con le go pro, e dal giorno stesso in cui li vidi mi misi ad abbozzare disegni e tag (nickname con cui si identificano e che scrivono i writer).La storia più romanzata invece è che fin da piccolo, tornando a casa da scuola ad esempio, contavo le tag uguali sulla via di casa, tipo ANDY, a Desio è pieno, ne contavo anche dieci nella stessa via».
Perché hai scelto proprio Pawk come tag?
«Inizialmente scrivevo Lit, perché veniva detto da qualche youtuber, poi è diventato Wrung, che si è trasformato in Wrong, ma mi sembrava banale. Pawk è nato dall’insieme di “Pa-“ preso da un mio soprannome che usavo fin da piccolo, a cui ho aggiunto la W di “Wrung” e la K finale per estetica. Sono contento però che sia rimasto nel tempo, ormai lo scrivo da 4 o 5 anni, da quando mi sono messo seriamente a pensare come strutturare i pezzi e informarmi».
Qual è lo scopo del writer? Perché scrivere il proprio nickname su un muro?
«Ci sono diversi scopi in realtà, alcuni lo fanno solo per manie di protagonismo, per vedere il loro nome ovunque in una città. Altri seguendo anche quella che è la storia dei graffiti lo fanno per dissociare la loro persona dalla loro arte, non hanno visibilità gli artisti ma i loro graffiti e il loro stile. Io personalmente lo faccio perché mi piace, è una cosa che per quanto illegale posso fare fisicamente e mi diverto».
E per quanto riguarda l’imbrattare un muro? Con che criterio li scegliete?
«Ci sono delle regole non scritte: non scrivi su case, monumenti, chiese. In generale lo capisci. Poi più vai verso Milano meno alla gente interessa, perché lo spazio è poco e appartiene alla cultura della città dipingere su saracinesche o muri di case.Personalmente guardo sempre dove sto lavorando, se è il muro di un’azienda non mi faccio problemi, ma case, macchine o camion non li tocco. Poi dipende da quello che si vuole fare, se si vuole lavorare con calma si cercano posti più nascosti, anche abbandonati dove non arrivi sorveglianza, mentre se si punta ad avere più visibilità bisogna calcolare anche il rischio che arrivino a fermarti.
Pensi che i tuoi pezzi possano arricchire a livello urbano il paesaggio?
«Sì, penso che aggiungere colore a dei muri spenti sia sempre positivo, che sia street art o graffiti. Il problema dei graffiti è che è una nicchia che non viene capita da tutti, io vedo delle lettere stilose e mi gaso, una persona qualunque ci vede solo una scritta, ammesso che riesca a leggerla».
Pensi avrebbe senso fare esposizioni sui graffiti come viene fatto a volte con la street art?
«Dipende, penso che un cartello o una tela una volta che vengono prese e dipinte possano benissimo essere messe in mostra; per quanto riguarda invece possibili riproduzioni di graffiti in un contesto museale tipo come viene fatto con alcuni lavori di Banksy, penso proprio di no; è qualcosa di nicchia e penso dipenda dal writer. Viper Haze fa pezzi molto artistici, ha fatto anche una mostra all’Art Mall a Milano, c’erano diversi lavori suoi, accessori, divanetti, tele… lì writing e street art si sovrappongono, ma perché lui ha deciso di sovrapporle, perché è il suo stile e alla gente piace».
Lucrezia Valdameri