Ci si può profondamente commuovere per un semplice film di fantascienza, che racchiude in sé molteplici elementi fantasy, più riconducibili ad una mera eccitazione infantile che ad un’emozionalità più complessa? Per quanto riguarda “Rogue One: A Star Wars Story”, la risposta è assolutamente sì.
La pellicola è un costante nodo alla gola. Un ulteriore viaggio in quella “galassia lontana lontana”, ma stavolta che si insinua violentemente nelle viscere, per poi toccare le corde più sensibili della nostra interiorità. Una struggente avventura spaziale, ammantata da un tragico velo di tristezza.
In “Rogue One” non c’è spazio per sorrisi o siparietti comici (al massimo per il black humor del droide K-2SO). A differenza degli altri capitoli di “Star Wars” (omettendo forse “Star Wars: Episodio III – La vendetta dei Sith”, che non ne conserva però la medesima intensità), il film è un caleidoscopio di momenti strazianti, che ci lasciano consuetudinariamente amareggiati e sconvolti.
L’inglese Gareth Edwards (“Godzilla” 2014), alla regia di questo angoscioso spin-off starwarsiano (che si colloca cronologicamente tra “Episodio III” ed “Episodio IV – Una nuova speranza”), assieme ai soggettisti John Knoll (“Guerre Stellari – Il ritorno dello Jedi”) e Gary Whitta, ed agli sceneggiatori Chris Weitz, e Tony Gilroy sono stati capaci di raccontarci una zona fino ad ora rimasta in ombra entro l’universo ideato da George Lucas. Una malinconica ed avvincente storia di coraggio di un pugno di ribelli, senza spade laser, privi di particolari doti ultraterrene, ma che nonostante questo trovano la volontà di non crollare, di non cedere, nella nobile causa da perseguire contro il dispotico governo imperiale, assoggettatore dei popoli stellari e delle loro libertà fondamentali.
È incredibile come ci si affezioni così spassionatamente alle personalità ed alle vicende dei protagonisti di “Rogue One”. E quanto l’eroiche gesta e l’altruismo degli stessi ci spingano indirettamente a sostenerli nella loro lotta per la giustizia. I tormenti di Jyn Erso (una grintosa e complessa Felicity Jones) diventano anche i nostri. Noi vorremo quasi consigliare la migliore decisione da prendere al giovane e gentile Capitano Cassian Andor (Diego Luna). Dare una mano all’apprensivo Bodhi Rook (Riz Ahmed). Impugnare i blasters accanto al massiccio Baze Malbus (Jiang Weng). Entriamo in empatia con il sarcastico K-2SO. E speriamo per il meglio per il simpatico e saggio Chirrut Îmwe (Donnie Yen). Perché ci possiamo rispecchiare più in loro che in un abile Cavaliere Jedi dalle straordinarie capacità. Dei semplici individui che da soli non possono niente, ma che insieme e con le giuste motivazioni arrivano a compiere impavide azioni di grande generosità.
Edwards, malgrado curi un franchise con certe regole da rispettare, in parte fa di testa sua (grazie a Dio) e realizza il capitolo decisamente più maturo della nota epopea galattica, dove si percepisce nitidamente l’angustiosa poetica del regista britannico (basti pensare al realistico senso d’oppressione che suscitano le azioni imperiali), entro uno scioglimento narrativo sempre più
incalzante ogni minuto che passa. E le musiche composte da Michael Giacchino, non ci fanno rimpiangere l’assenza di John Williams a questo giro, ma anzi, vanno solo ad arricchire le sonorità di “Guerre Stellari”.
“Rogue One: A Star Wars Story” è una toccante elegia funebre sul sacrificio e sull’ardente rivalsa di un ideale, che vi commuoverà, vi rattristerà e vi farà scendere qualche lacrima, ma che risveglierà in voi la speranza, anche se si tratta di un’opera nata da un cosmo puramente fantastico.
“Abbiamo la speranza. Le ribellioni si fondano sulla speranza”. (Jyn Erso)
Gabriele Manca