“Senza la conoscenza del latino, siamo orfani delle nostre radici. E un popolo senza radici non ha futuro. Così si diventa schiavi inconsapevoli del presente”. Con queste parole provocatorie, Vittorio Feltri sottolinea l’importanza di una lingua che rappresenta molto più di un’eredità storica: è il fondamento della nostra identità.
Nato a Bergamo nel 1943, Feltri ha costruito una carriera solida e prestigiosa, diventando uno dei protagonisti del giornalismo italiano. Dopo le prime esperienze a L’Europeo e il quotidiano La Notte, Feltri scelto personalmente da Silvio Berlusconi prende il timone de Il Giornale nel 1994, succedendo al leggendario Indro Montanelli. Sotto la sua guida, il quotidiano ha vissuto una fase di rilancio grazie ai suoi titoli provocatori e al suo stile aggressivo, che non mancava di catturare l’attenzione dei lettori. La svolta arriva nel 2000, quando fonda Libero diventandone direttore e imponendosi come una delle voci più potenti della destra italiana, capace di dettare i temi del dibattito pubblico.
Nel 2021, decide di scendere in politica candidandosi come consigliere per la Regione Lombardia con Fratelli d’Italia alla difesa dei valori tradizionali e delle radici culturali italiane.
Il suo ultimo libro, “Il latino, lingua immortale. Perché è più vivo che mai” edito da Mondadori, è un saggio programmatico che esplora l’importanza del latino nella nostra società. Feltri sostiene che la perdita della conoscenza del latino ha impoverito la lingua italiana e, di conseguenza, il nostro pensiero. Con la consueta verve polemica, invita i lettori a riflettere su come questa lingua antica sia ancora oggi un pilastro imprescindibile per la comprensione della nostra identità culturale.
Abbiamo ospitato il Direttore nel Salotto di Domanipress per parlare con lui dello stato di salute della lingua italiana e del giornalismo in tempi di digitale ed intelligenza artificiale.
Direttore Feltri, da cosa nasce l’esigenza di esplorare un tema così complesso e, per molti, apparentemente distante come quello dell’importanza dello studio della lingua latina?
«Il latino è stato per secoli una colonna portante del nostro sistema educativo. Era obbligatorio nelle scuole medie e nei licei, e costituiva la base del sapere. Oggi, purtroppo, questa consapevolezza si è persa, e con essa la conoscenza di una lingua che è stata la culla dell’italiano e di molte altre lingue europee. Questa perdita non è soltanto linguistica, ma anche culturale».
Possiamo affermare che Il latino è davvero una lingua immortale?
«Certamente, dobbiamo farlo. Il latino ci ha tramandato regole fondamentali, come la consecutio temporum o l’uso corretto del congiuntivo, che ormai sembra un optional. Non conoscere queste regole significa perdere la capacità di esprimersi con precisione e profondità. Inoltre, molti termini che usiamo quotidianamente, e che pensiamo siano di origine inglese, derivano in realtà dal latino. È ridicolo che si ignorino le radici della nostra stessa lingua non crede?».
Nel suo libro descrive un legame personale e particolare tra il latino e il dialetto bergamasco. Com’è nata questa sua passione per una lingua così complessa e quale ruolo ha giocato nella sua vita?
«Sono rimasto orfano molto giovane, e mia madre, con tre figli, ha dovuto far fronte a una situazione familiare difficile. Finite le scuole medie, dove avevo già avuto un primo contatto con il latino traducendo il De Bello Gallico, ho dovuto mettermi a lavorare. Sono diventato vetrinista, un lavoro che mi ha permesso di guadagnare abbastanza da poter interrompere per un periodo e riprendere gli studi. Ma a quel punto non potevo più iscrivermi a una scuola pubblica, per via della mia età. È stato allora che ho incontrato Monsignor Angelo Meli, direttore della Biblioteca Civica di Bergamo, che mi ha preso sotto la sua protezione. Per circa due anni mi ha fatto da tutor e con lui parlavo solo in latino o in bergamasco. Questo mi ha permesso di imparare il latino in modo più naturale e diretto, come si impara una lingua viva, e non solo attraverso lo studio scolastico».
Il latino, come emerge dalle pagine del suo libro, è per lei non solo una lingua, ma anche un modello di comportamento e riflessione. Parlando invece della sua carriera giornalistica, non è approdato subito alla scrittura ma ha avuto un’esperienza lavorativa come vetrinista. Cosa ha portato con sé di quella esperienza ?
«Dopo aver terminato il diploma, mi sono iscritto all’università e ho recuperato gli studi. Tuttavia, il giornalismo è sempre stato la mia vera passione. Ho iniziato la mia carriera collaborando con il Giornale di Bergamo, legato alla curia. Successivamente sono passato a La Notte di Nino Nutrizio, un vero maestro che mi ha insegnato il mestiere. Devo dire che l’esperienza di ideatore di vetrine mi ha aiutato: allestire una vetrina è simile a creare un titolo di giornale. In entrambi i casi, devi catturare l’attenzione delle persone, sia che si tratti di passanti o di lettori. Per me è stata una palestra concettuale».
Viviamo in un momento storico dove la partita si gioca sul catturare l’attenzione sempre meno verticale…
«Anche oggi, creare un titolo accattivante è un’arte che richiede intuito e sintesi. Questo parallelo tra vendere e raccontare storie mi ha dato un vantaggio nel mondo dell’informazione».
Sotto la sua direzione, molti giornali hanno visto crescere la loro tiratura in maniera significativa. Qual è stata la chiave del suo successo nel mondo dell’editoria?
«Ho sempre pensato che il successo di un giornale dipenda dalla capacità di interpretare il pensiero della gente comune. È fondamentale capire quali sono i temi che interessano le persone, e saperli comunicare con titoli che facciano venire voglia di approfondire».
Alcuni focus sono stati anche molto fuori dalle righe non crede?
«Ho cercato di mantenere l’orecchio rivolto verso la strada, per così dire, cercando di cogliere ciò che il pubblico realmente pensa e vuole leggere. Questo approccio libero anche dalle gabbie dei clichè mi ha portato fortuna. Evidentemente, la mia scelta editoriale non era sbagliata, perché i lettori hanno risposto positivamente».
Oggi, il tema della libertà di stampa è sempre più centrale. Qual è la sua opinione in merito? I giornalisti italiani sono davvero liberi?
«A mio avviso, i giornalisti italiani sono tra i più liberi al mondo. Ma c’è sempre un condizionamento, riassunto bene dalla frase: “La libertà di attaccare lasino dove vuole il padrone.” Anche se c’è libertà formale, esistono delle dinamiche che limitano l’autonomia reale, perché il giornale dipende sempre dagli interessi di chi lo possiede».
Lei è spesso al centro delle polemiche per i suoi titoli provocatori e i tweet, talvolta al vetriolo. Come vive le critiche che riceve?
«Le critiche non mi toccano particolarmente. Quando fai un mestiere come il mio, devi mettere in conto che non tutti apprezzeranno ciò che dici o scrivi. È inevitabile. C’è chi mi critica duramente, ma lo trovo normale. Non mi esalto per gli applausi, così come non mi abbatto per i fischi. La critica è parte del gioco».
Nel suo percorso politico, ha attraversato fasi diverse, passando dal Partito Socialista a Fratelli d’Italia, dove oggi è capolista per il Comune di Milano. Alcuni la accusano considerando questo passaggio una contraddizione. Come risponde a questa osservazione?
«Non vedo alcuna contraddizione. Da giovane, essere socialista in una Bergamo dominata dai democristiani mi sembrava una forma di anticonformismo. Tuttavia, col passare degli anni, ho smesso di aderire a partiti politici».
Quindi non si ritiene cambiato?
«Recentemente, ho trovato in Giorgia Meloni una figura politica in cui mi riconosco, e così ho deciso di candidarmi con Fratelli d’Italia. Non trovo nulla di stravagante in questo. Ricordi che cambiare opinione non significa essere incoerenti, ma evolvere con il proprio pensiero».
Parlando dell’attuale governo, qual è la sua valutazione complessiva?
«Non possiamo aspettarci miracoli da questo governo, ma i risultati finora ottenuti sono più che soddisfacenti. Ho fiducia nella leadership di Giorgia Meloni e confermo il mio sostegno al suo operato. Certamente ci sono ancora molte sfide da affrontare, ma la strada intrapresa mi sembra quella giusta».
Uno dei detti latini che cita nel suo libro è Fortuna audaces iuvat (“La fortuna aiuta gli audaci”). Nella sua vita ha avuto più fortuna o più audacia?
«Penso che la fortuna abbia giocato un ruolo determinante, al punto che scherzando dico di essere stato assistito da “San Culo”. Però, oltre alla fortuna, ci vuole anche impegno. Direi che è stata una combinazione: 50% fortuna, 50% audacia e tanto lavoro. Ho sempre fatto del mio meglio per dare il massimo in ogni occasione».
Oggi, il giornalismo affronta sfide nuove e complesse, come quella dell’intelligenza artificiale. Come vede il futuro della professione in questo contesto?
«Personalmente, non mi interessano molto le nuove tecnologie, mi accontento della mia ignoranza naturale. Tuttavia, è indubbio che il giornalismo sia in crisi anche a causa del digitale. I giornali vendono sempre meno, e di conseguenza gli investimenti nelle redazioni sono limitati. Questo ha ridotto la qualità dei prodotti editoriali: non ci sono più inviati, perché costano troppo, e le inchieste approfondite stanno scomparendo. La gente si accontenta di leggere notizie sui social, perdendo così la complessità e l’approfondimento che solo il giornalismo serio può offrire».
Tra i giornali che non ha diretto, ce n’è uno che legge con particolare interesse?
«Il Corriere della Sera rimane il giornale che ho nel cuore, quello che mi ha dato le maggiori soddisfazioni. Lo compro ancora con piacere, anche se, per dovere professionale, devo leggere quasi tutti i quotidiani per avere un’idea di come si muove il mercato».
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Vittorio Feltri, quali sono le tue speranze e le tue paure?
«La mia preoccupazione più grande del Domani riguarda l’attuale scenario geopolitico. Ho il timore che, continuando a inviare armi all’Ucraina, la Russia possa reagire in modo estremo, arrivando a utilizzare le armi nucleari. Sarebbe una catastrofe di proporzioni globali, con conseguenze imprevedibili. Questo è il mio incubo peggiore: una guerra mondiale senza via d’uscita. Per quanto riguarda la mia vita personale, mi accontento di ciò che ho. Vivo serenamente a Milano, in compagnia dei miei gatti, che mi danno grande conforto. Non ho particolari ambizioni per il futuro, se non quella di godermi la tranquillità che ho conquistato».
Intervista esclusiva a cura di Simone Intermite