«Il giornalismo per sopravvivere alle nuove tecnologie deve tornare ad essere imparziale, deve riconquistare la fiducia dei lettori altrimenti nn avrà futuro. Le vecchie redazioni, una volta templi del pensiero, sono diventate rovine polverose. Mi sento come l’ultimo sopravvissuto di un pianeta che lentamente svanisce sotto i colpi implacabili della rete e dell’indifferenza». Con queste parole, Antonio Padellaro, una delle figure più emblematiche del giornalismo italiano, descrive con amarezza e lucidità l’evoluzione di una professione che ha segnato tutta la sua vita. Nato a Roma nel 1946, il direttore editoriale romano ha attraversato più di cinquant’anni di storia del giornalismo italiano, diventando una delle sue firme più rispettate e influenti. Dopo aver mosso i primi passi al’Ansa, ed aver assunto il ruolo di responsabile della redazione romana del Corriere della Sera è stato per lungo tempo giornalista de L’Espresso, dove si è distinto per il suo rigore e la capacità di raccontare la realtà con passione e coraggio. Successivamente, ha diretto testate come L’Unità e Il Fatto Quotidiano quest’ultimo fondato insieme a Marco Travaglio, con l’obiettivo di proporre un’informazione indipendente. Nel corso della sua carriera, Padellaro ha dato voce a inchieste e scoop che hanno segnato l’opinione pubblica italiana, senza mai rinunciare al suo impegno per la verità, anche quando questa risultava scomoda. È stato testimone di eventi storici, ha raccontato i retroscena della politica e del potere, e ha contribuito a formare generazioni di giornalisti con la sua esperienza e la sua visione critica. Nel suo ultimo libro, “Solo la verità lo giuro. Giornalisti Artisti Pagliacci”, edito da Piemme, Padellaro riflette su mezzo secolo di giornalismo e racconta senza filtri il dietro le quinte di una professione tanto affascinante quanto complessa. Il libro è un diario intimo, un insieme di confessioni e rivelazioni che non risparmiano nessuno, neppure l’autore stesso. Attraverso le sue pagine, il giornalista romano ci conduce in un viaggio tra ricordi e riflessioni, sempre con quel tono ironico e autoironico che lo ha contraddistinto in tutta la sua carriera.
Abbiamo ospitato Antonio Padellaro nel primo appuntamento della nona stagione del Salotto Digitale di Domanipress per esplorare insieme a lui le sfide e le contraddizioni del giornalismo di oggi, riflettendo su un mestiere che, pur cambiando forma, continua a rappresentare una pilastro fondamentale della società moderna oltre che uno strumento di democrazia.
«Il titolo del libro è “Solo la verità, lo giuro”, il che chiaramente implica che la verità debba parte da chi scrive. Sarebbe facile per me raccontare solo ciò che ci fa comodo, ma per etica ho voluto essere sincero e trasparente, nel bene e nel male. Questo racconto riflette le luci e le ombre della mia vita. Non tralascio le ombre».
Accostare la parola giornalista a pagliaccio è un atto di ironica ribellione o di sincerità?
«Di sincerità…A volte mi sono sentito un artista, altre volte un pagliaccio, non in senso offensivo, ma come quei clown che si trovano a recitare una parte che non è davvero la loro sotto il tendone di un circo. Penso che la sincerità di ciò che ho scritto sia l’aspetto più importante per me: vorrei che il lettore senta che sto raccontando la verità, non solo su di me, ma su eventi importanti nella storia del nostro Paese, di cui sono stato testimone diretto. Quello che racconto non è qualcosa di letto o rielaborato, ma la mia testimonianza diretta. Tengo che chi si trovi nelle mani il libro percepisca che, nel bene e nel male, questo giornalista racconta le cose come sono realmente accadute».
Nel libro c’è molta verità, non ti risparmi nel raccontare la tua storia e le contraddizioni che hanno caratterizzato questo mezzo secolo di carriera. Una parte che mi ha molto colpito è quando parli delle varie “cacciate” che hai subito dai vari editori, immagino siano stati momenti dolorosi. Questo è il prezzo della libertà?
«Le cacciate che racconto nel libro le descrivo col sorriso sulle labbra. Detesto il vittimismo e non c’è martirologio in ciò che ho descritto. Ci sono momenti in cui lavori in un luogo e non ti ci ritrovi più, e magari anche le persone che lavorano con te non sono contente di quello che fai, è nell’ordine delle cose che certi rapporti si interrompono anche se ovviamente spesso accade in maniera poco piacevole».
Nessun rancore?
«Riconosco agli editori il sacrosanto diritto di allontanare i direttori, perché il direttore ha un rapporto con la redazione, ma anche un dialogo diretto con chi lo nomina. Non verso lacrime, non c’è piagnisteo. Racconto solo di quei momenti in cui ho detto: “Basta, punto e a capo”. Questa capacità di fare punto e a capo me la riconosco tutta».
«Quando mi chiedono se la libertà di espressione e informazione è a rischio, rispondo che in un paese con una miriade di siti, testate giornalistiche e canali televisivi, è difficile sostenere che la libertà sia in pericolo. Bisognerebbe riferisci ai decreti dei tempi dell’antica Roma per sostenere un concetto del genere. Non so su quale base alcune organizzazioni sostengano che la libertà di stampa in Italia sia in bilico, io non la vedo così. Certo, dobbiamo essere sempre vigili e attenti alle censure, ma vedo altri pericoli ben più seri. Non è la verità dei fatti ad essere in discussione, ma una pseudo-verità che sta prendendo piede, soprattutto tra i giovani».
«Innanzitutto, bisognerebbe combattere il partito del “partito preso”, un pregiudizio che finisce per manipolare le cose che raccontiamo. I nostri veri padroni, o almeno così dovrebbe essere, sono i lettori, gli ascoltatori, coloro che ci seguono. Trasformare i nostri interventi in protagonismi è un danno alla nostra professione e a chi fruisce dell’informazione. I lettori hanno il sacrosanto diritto di sapere come sono andate le cose. Se vogliamo esprimere delle opinioni, facciamolo in spazi regolati, ma i fatti vanno raccontati per quello che sono. In televisione, ad esempio, non c’è niente di peggio che sapere già cosa dirà qualcuno prima ancora che parli. È possibile che un giornalista favorevole al governo Meloni non riesca mai a dire “in questo ha sbagliato”, o viceversa? Questo sta uccidendo il nostro mestiere».
Questo appiattimento dei contenuti porta a una mancanza di quelle “pepite d’oro”, le parti critiche, che l’opinione pubblica non riesce a trovare. Qual è stata la pepita d’oro nella tua carriera giornalistica?
«Ce ne sono state diverse. Una che ricordo con orgoglio è il lavoro che feci con Roberto Martinelli sul delitto Moro. Pubblicammo un libro con Rizzoli, “Il delitto Moro”, e tirammo fuori tante cose non conosciute, come la famosa seduta spiritica a casa Prodi, da cui uscì la parola “Gradoli”. La polizia equivocò il termine e cercò un paese vicino Roma, mentre si trattava di via Gradoli, dove fu trovato un covo delle Brigate Rosse. Quel lavoro di approfondimento è sicuramente una delle mie pepite d’oro».
Oggi i giornalisti devono confrontarsi con le nuove tecnologie, come l’intelligenza artificiale, capace di creare contenuti. Credi che questo rappresenti una nuova minaccia per il giornalismo, o solo un nuovo strumento da utilizzare?
«Non so, mi sembra che per quanto riguarda il giornalismo e l’informazione, questi nuovi strumenti non facciano altro che valorizzare il giornalismo vero, quello fatto di racconto, narrazione autentica. Ti faccio un esempio: in queste ore si parla di una possibile guerra tra Iran e Israele. Potremmo avere pezzi scritti dall’intelligenza artificiale che ci raccontano tutto dei missili, delle truppe, delle strategie. Poi apri il Corriere della Sera e leggi le pagine di un grande scrittore israeliano come Eshkol Nevo, che racconta come sta vivendo questo incubo. È un racconto letterario ma anche giornalistico, pieno di pathos. L’intelligenza artificiale non potrà mai sostituire questo. Quindi, più cresce l’uso dell’intelligenza artificiale, più aumenterà il valore del giornalismo vero».
Grande attenzione è dedicata alla creazione de “Il Fatto Quotidiano”. Dopo aver avuto problemi in varie redazioni, hai deciso di fondare un giornale insieme a ad giornalisti con il quale hai instaurato un rapporto profondo. Qual è stato il valore dell’amicizia all’interno della redazione del Fatto?
«Ti ringrazio per la domanda, perché va al cuore della storia del nostro giornale. L’amicizia non è volersi bene tutto il tempo; può anche significare litigare, ma quando si fa pace, l’amicizia si rinsalda. L’amicizia è un “idem sentire”, un comune sentire rispetto a due o tre cose fondamentali del nostro mestiere. Primo, non fare sconti a nessuno; secondo, essere indipendenti, anche dai nostri editori. Infine, dire sempre la verità, anche quando fa male. Questi erano i principi che ci hanno unito, ed è ciò che ha permesso al Fatto Quotidiano di crescere e diventare quello che è oggi. Abbiamo avuto il coraggio di affrontare chiunque, senza paura di ritorsioni o di perdere il lavoro. Questo ci ha dato una forza incredibile e ha creato un legame tra di noi che va oltre la semplice collaborazione lavorativa. Siamo stati e siamo tuttora una famiglia, una famiglia un po’ litigiosa magari, ma sempre unita dall’obiettivo comune di fare un giornalismo libero e onesto».
Hai ribadito che non fare sconti a nessuno è un principio fondamentale del nostro lavoro. Tuttavia, nella tua carriera hai sicuramente incontrato situazioni difficili da gestire senza compromessi. Come riesci a mantenere questa integrità senza essere influenzato dalle pressioni esterne?
«Questo è sicuramente uno degli aspetti più complicati del nostro lavoro. Le pressioni ci sono, vengono da tutte le parti: dai poteri economici, politici, a volte anche da chi ci sta vicino. Ma la chiave per mantenere l’integrità è sempre stata la coerenza con i miei principi. Ho imparato che se cominci a fare piccoli compromessi, alla fine perdi di vista ciò che è veramente importante. Ogni volta che ho dovuto affrontare una situazione difficile, ho cercato di pensare a cosa fosse giusto fare, non a cosa mi conveniva. Questo mi ha permesso di dormire sonni tranquilli e di guardarmi allo specchio ogni mattina senza rimpianti».
Nel libro affronti anche il tema della manipolazione dell’informazione e di come i giornali possano influenzare l’opinione pubblica. Viviamo in un’epoca di fake news e di disinformazione dilagante. Quali strumenti ritieni siano essenziali per un giornalista per contrastare questa deriva?
«Il primo strumento è sicuramente la verifica dei fatti. Non mi stancherò mai di ripetere quanto sia fondamentale verificare, controllare e ricontrollare le informazioni prima di pubblicarle. Poi c’è la formazione: i giornalisti devono essere preparati, devono conoscere bene i temi di cui parlano, per evitare di cadere nelle trappole della disinformazione. Infine, l’etica. Un giornalista deve avere un forte senso etico, deve sentire la responsabilità di ciò che scrive, perché ciò che racconta può avere conseguenze importanti. Il nostro lavoro non è un gioco, e dobbiamo trattarlo con il rispetto che merita».
Una delle sfide attuali del giornalismo è la velocità con cui si devono diffondere le notizie. Come conciliare la necessità di essere rapidi con l’importanza di essere accurati?
«È una sfida difficile. La rapidità è importante, perché oggi l’informazione corre veloce e i lettori vogliono sapere subito cosa sta succedendo. Ma la velocità non deve mai andare a scapito della verità. È meglio prendersi qualche minuto in più per verificare una notizia, piuttosto che pubblicare qualcosa di non confermato e dover poi rettificare. Credo che i lettori apprezzino la correttezza e l’affidabilità, anche se significa aspettare un po’ di più. E poi, la velocità non deve essere confusa con la superficialità. È possibile essere rapidi e al contempo approfonditi, ma ci vuole esperienza e professionalità».
Quale consiglio daresti ai giovani giornalisti che vogliono intraprendere questa carriera?
«Il mio consiglio principale è di essere curiosi e di non smettere mai di imparare. Il giornalismo è un mestiere in continua evoluzione, e bisogna essere sempre pronti ad adattarsi ai cambiamenti. Ma soprattutto, bisogna essere fedeli a se stessi e ai propri principi. Non cedete alle pressioni, non fate compromessi che potrebbero minare la vostra integrità. La vostra reputazione è la cosa più preziosa che avete. E poi, non dimenticate mai che il giornalismo è un servizio pubblico: raccontare la verità, informare correttamente i lettori, è un compito che ha una grande responsabilità. Se farete questo con passione e dedizione, avrete sicuramente una carriera soddisfacente».
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Antonio Padellaro quali sono le tue speranze e le tue paure?
«Guardando al Domani, sono naturalmente portato a pensare che le cose possano migliorare. Ho vissuto momenti molto bui nella storia italiana, come il periodo delle Brigate Rosse e le stragi, dalle bombe di Bologna a Ustica. Eppure, oggi il nostro paese è più forte, e la nostra democrazia ha sviluppato anticorpi. La mia paura più grande è che, in Medio Oriente, possa scatenarsi un conflitto senza via d’uscita, un’escalation che nessuno vuole, ma che potrebbe avere conseguenze imprevedibili. A livello personale, la mia preoccupazione riguarda il fatto che, alla tenera età di 79 anni, il mio percorso di vita potrebbe essere più breve. Spero sinceramente che la scienza trovi l’elisir di lunga vita e che io possa continuare a vivere a lungo».
Intervista esclusiva a cura di Simone Intermite