“Le parole nude sono la chiave per comprendere il teatro della vita. In una doppia scena parallela che restituisce, allo stesso tempo, storia e quotidianità”, Antonella Boralevi – scrittrice e opinion leader con una formazione in filosofia del linguaggio con questa immagine evocativa, ci conduce in un viaggio affascinante attraverso il labirinto delle parole e delle emozioni umane. La sua presa d’atto critica sulla lingua e sulla società contemporanea riflette una profonda consapevolezza della potenza del verbo nel plasmare le nostre esperienze e le nostre relazioni. Come scrittrice e filosofa del linguaggio, Boralevi si immerge in un’analisi senza compromessi delle parole che dominano il nostro vocabolario quotidiano, sfidando il loro significato convenzionale e svelando le sfumature più oscure e trascurate. Tutto parte dal suo primo spettacolo teatrale al Museo Baratti Valsecchi, un momento di svolta, una fusione di storia e contemporaneità in una narrazione visiva e intellettuale. Attraverso una doppia scena parallela, Boralevi ha offerto uno sguardo penetrante sulla parola “amore”, esplorandone le molteplici interpretazioni e rivelando la sua vera essenza al di là dei cliché romantici e delle convenzioni sociali. In questo contesto unico, dimostrando la sua capacità di trasformare concetti astratti in esperienze tangibili, sfidando il pubblico a riflettere sulle proprie percezioni e connessioni con la parola più potente e controversa della nostra lingua. Laureatasi con lode presso la prestigiosa Scuola Normale Superiore di Pisa, l’opinion leader richiesta da salotti tv da Mediaset alla Rai ha manifestato fin da giovane un interesse ardente per l’analisi e la comprensione del linguaggio umano.Tuttavia, anziché intraprendere una carriera accademica, ha scelto di seguire la sua vocazione come cronista del presente, esplorando le sfide e le dinamiche della società contemporanea attraverso la lente affilata della sua mente filosofica. In questa Video intervista esclusiva, nel Salotto Digitale di Domanipress abbiamo avuto l’opportunità di approfondire il lavoro e la visione di Antonella Boralevi, esplorando i suoi pensieri sulla lingua, sul potere delle parole e sulla ricerca della verità nel labirinto della comunicazione umana attraverso un viaggio intellettuale ed emotivo, alla scoperta di nuove prospettive e di una comprensione più profonda del nostro modo di dialogare e di connetterci con il mondo in continuo mutamento.
Antonella, tu delle parole hai fatto un mestiere. Recentemente sei stata protagonista al Museo “Bagatti Valsecchi” con uno spettacolo teatrale. Il titolo è “Parole Nude”. Perché è importante spogliare le parole?
«Questa è una buona domanda. Io ho una formazione da filosofo del linguaggio e sono una scrittrice, per cui il mio lavoro sono le parole e il cuore umano. E quello che è necessario dire è che le parole sono trappole; un po’ come accade con i numeri francesi; in francese, infatti, per dire ottanta si dice quattro volte venti, per dire novanta si dice quattro volte venti più dieci; e questo lo inventò il Re Sole, perché così poteva chiedere le tasse ai contadini, senza che questi sapessero effettivamente quanto pagavano. Con le parole accade lo stesso. Le parole sono trappole, ma per accorgerti della trappola e poi per disinnescarla è necessaria una competenza che la maggior parte delle persone non ha, semplicemente perché non le viene data; infatti, se a scuola si insegnasse a disinnescare le trappole dei discorsi, nessun politico ci potrebbe imbrogliare. Le parole sono delle trappole, perché sono un’arma di distrazione personale e di massa. In questa mia nuova performance teatrale ho scelto di disinnescare la parola più usata, la parola più abusata che è la parola “amore”».
Una parola piena, cantata dai poeti in epoche lontane, declinata in tanti modi, anche un p’ “sporcata” da un utilizzo a volte troppo commerciale.
«La parola “amore” è una specie di salvacondotto; si dice: lo faccio, perché ti amo e dicendo così è come se si fosse autorizzati a fare qualunque cosa, anche la peggiore, la più nefasta. In questo monologo io uso riferimenti musicali, c’è un pianista bravissimo che si chiama Marco Schirru e racconto pezzi della vita di persone che hanno a che fare con il discorso che voglio fare io, nonché di personaggi anche letterari».
Come disinneschi la parola “amore”?
«Cominciano da questo tema: quale genitore non ha detto al proprio figlio che faceva una cosa per il suo bene e perché lo amava? Di nuovo, la parola “amore” viene usata per coprire qualcosa di differente, che è una manipolazione. A proposito di manipolazione, il monologo inizia con la Carmen e precisamente con la Habanera. E cosa dice la Habanera? Quando lei è in carcere, legata, davanti al brigadiere, che poi lei sedurrà tanto che poi lui la farà scappare; lei gli dice di stare attento, perché l’amore è un uccello strano che non si può imbrigliare e se lei lo ama, allora lui deve avere paura. Questo è il tema, ma nessuno ce lo dice. Esattamente come avviene quando gli uomini ammazzano le donne, perché dicono di amarle, oppure usano violenza, oppure sminuiscono le donne sul piano personale e dicono di farlo in nome dell’amore. Non esiste amore malato, se è malato, allora non è amore».
Sono delle sinestesie sbagliate, che poi diventano concetti sbagliati, perché poi le parole si traducono in concetti e in azioni. Leggendo la tua biografia, posso dire che abbiamo in comune un 110 e lode nelle materie letterarie, ma tu sei riuscita ad arrivare alla Scuola Normale di Pisa e poi a dire che volevi fare la giornalista, cioè che volevi occuparti di altro. Come è avvenuta questa scelta? Hai avuto un grande coraggio.
«Prima però volevo ringraziare il Direttore del Museo “Bagatti Valsecchi”, Antonio D’Amico, perché mercoledì sera, dopo un aperitivo, ci sarà un pianista e un’attrice che portano lo spettatore dentro questa trappola della parola “amore”, mettendoci dentro delle cose che, secondo me, poi servono nella vita di ognuno. Trovo questa scelta straordinaria, perché non è facile trovare un direttore di museo con una visione capace di dire che un museo deve vivere ma diventare anche azione nella vita personale. Vorrei che gli spettatori che verranno a vedere lo spettacolo e che leggeranno questa intervista, mi vengano a trovare alla fine dello spettacolo».
Va bene. Torniamo alla tua storia, raccontaci della Scuola Normale di Pisa.
«Tornando alla mia storia, io ho un’età e quando studiavo, la filosofia del linguaggio, come anche la semiologia, una scienza che all’università non aveva ancora un corso di studi. Io, però, avevo un professore, che è un caposaldo della cultura italiana, Giovanni Nencioni, che insegnava Chomsky, De Saussure, Austin, cioè aveva capito dove andava il futuro. Io mi sono laureata con lui in filosofia del linguaggio, ma tecnicamente ero laureata in storia della lingua italiana, perché non esisteva la cattedra. A un certo punto, il professore, che era un uomo eccezionale, venne chiamato dall’Università di Firenze a Direttore della Scuola Normale di Pisa; si portò con sé due o tre persone, tra le quali c’ero anche io, che ero una ricercatrice. E io andai. E pensa che andavamo ai congressi, in cui a me assegnavano uno speech di cinque minuti e a 22 anni ero in un panel, in cui c’era Chomsky. Io adoro studiare; credo che hai potuto constatare che anche quando esercito le mie funzioni di opinion leader, io un argomento lo studio, non arrivo mai senza aver studiato l’argomento. Io allora facevo ricerca sulla Grammatica Teorica, si basava sulla logica, si facevano dimostrazioni, si creavano modelli teoretici, si cercava il legame con le parole e via dicendo, era un lavoro molto astratto che io adoravo. E a un certo punto mi resi conto che se fossi andata avanti in quella direzione, sarei diventata come quegli scienziati dei vecchi film della Walt Disney, che per ricordarsi che devono sposarsi devono avere il laboratorio tappezzato di cartelli con su scritto: “Ricordati che devi sposarti”; io capii che la mia vita sarebbe diventata più o meno così, facendo uno studio matto e disperatissimo, anche perché in solitario. Così, mi dissi che non potevo fare una vita da asceta, per cui decisi di andare a parlare con il mio professore; immagina questo studio tipo Cappella Sistina, grandissimo, con le pareti tappezzate di libri, su un lato tutte vetrate che danno su una piazza meravigliosa e in fondo uno studio con una bellissima scrivania del Cinquecento, con seduto un professore elegantissimo. Lui mi chiese perché volevo parlargli e io, me lo ricordo ancora oggi dopo trent’anni, non avendo il coraggio di guardarlo negli occhi, mentre fissavo il calamaio gli dissi che avevo deciso di lasciare la Scuola.
Le parole sono il filo conduttore di tutto…
«Anche in questo caso, torna il potere delle parole, perché per chi ha studiato lì, la Normale di Pisa è la Scuola, invece chi non ha studiato lì la chiama Scuola Normale. Lui mi chiese cosa avessi deciso di fare; io gli risposi che volevo stare nel mondo, che quegli studi mi appassionavano troppo e che volevo fare la giornalista. Al che lui mi chiese se mi avessero chiamato a Il Corriere della Sera e allora io gli dissi che no, che sarei andata a lavorare alla rivista dei calzaturieri di Santa Croce sull’Arno. E così è stato, e il mio prezzo è stato: “Ritrovata a Certaldo la scarpa del Boccaccio?”».
Capisco benissimo questa necessità di uscire dall’ambiente un po’ polveroso, detto in senso bonario, che è quello accademico per buttarsi nella vita vera e applicare quelle leggi, quell’assunto, quel metodo, di cui parlavi prima, a quelli che sono i temi che affronti da opinion leader. A proposito di questo, tu sei spesso in tv. Volevo chiederti come reputi la tv di oggi, spesso si assiste a una televisione urlata, poco incline all’approfondimento giornalistico. Tu ti trovi spesso anche in situazioni borderline.
«Il tema è questo, come diceva McLuhan “il tema è il messaggio”, ovvero le cose cambiano a seconda del posto in cui le dici. Questo vale sempre, perché se dici una cosa a tua madre in salotto è un conto, se gliela dici per strada è un altro. Analogamente la televisione è un mezzo, che sfortunatamente ha le sue regole. Quando, saremo a teatro con il mio nuovo spettacolo, io avrò dei tempi teatrali. La televisione ha dei tempi teatrali esasperati, quindi dipende moltissimo dal conduttore. Se il conduttore è particolarmente bravo, fa esattamente quello che fa il direttore d’orchestra; il direttore d’orchestra non legge la partitura, ma la interpreta, ovvero decide se e quando deve entrare una tromba, un oboe e via dicendo. Analogamente, ci sono dei programmi, in cui un conduttore ha venti minuti, ma è in grado di far esprimere un ragionamento a tutti i suoi ospiti; ci sono, invece, dei programmi, in cui si decide che quello che conviene è il conflitto, e il conduttore crede nel conflitto, per cui invece di stopparlo, lo ascolta. Quindi, qual è la difficoltà di andare in televisione ed esprimere un ragionamento su un argomento. Posso dirla con una massima di Cicerone, che mi ripeteva mio padre, che era ingegnere, quindi molto pignolo: “Rem tene, verba sequentur”, cioè, se hai in mente un concetto, scriverlo è facile, ma per esprimerlo oralmente devi avere il tempo televisivo, cioè devi riuscire a entrare in quella frazione di spazio che ti viene assegnata, devi anche cercare di trattenerti, e io a volte non lo faccio, quando senti qualcuno che dice delle cose con cui non sei per niente d’accordo e poi devi avere la capacità di esprimere in pochissimo tempo un concetto che deriva da un ragionamento».
E questo crea una difficoltà.
«Sì, e qual è la vera difficoltà, che poi mi fa intervenire in modo a volte brusco? La difficoltà è quando tu arrivi e discuti della parola “domani”, mentre il tuo interlocutore parla del “cervo tedesco”; allora io mi domando perché uno debba parlare del cervo tedesco se io sto parlando della parola domani. E questo avviene perché la maggior parte degli interlocutori che vanno in un talk show, sono indottrinati con una sorta di filastrocca che hanno imparato, per cui non tengono conto di come si sviluppa la discussione e quindi non rispondono sul tema, ma si limitano a dire la loro lezioncina. Questo è veramente difficile».
A proposito di questo, spesso è difficile anche trovare il dialogo, e in questo ultimo periodo non solo a livello televisivo. Leggendo la tua biografia e ascoltando alcune tue interviste, si capisce che tu tieni abbastanza riservata la tua vita privata. Nei tuoi romanzi, invece, mi sembra di vedere degli elementi che forse rivelano un po’ del tuo profilo caratteriale; nei tuoi libri, per esempio, c’è sempre la notte, l’oscurità, quest’atmosfera un po’ shakespiriana, come mai?
«Trovo questa domanda molto acuta. Credo che la mia vita non sia rilevante, che non interessa a nessuno né interessa a me per usarla come strumento di marketing. Io per molti anni ho condotto un programma su Raidue, che si chiamava Uomini, di cui ci sono alcuni estratti nel mio sito; trattandosi di un programma di trent’anni fa, ovviamente non era così facile affrontare in televisione temi come il sesso, la malattia, le relazioni, le proprie tragedie, che creano empatia e via dicendo; io allora facevo parlare gli uomini di potere dell’epoca e questi uomini parlavano di sentimenti, cosa che invece non facevano in altri programmi o sui giornali, dove invece parlavano solo del loro lavoro».
Forse la vera pornografia è questa, cioè vendere la parte privata della propria vita. Lo vediamo oggi con i social, gli influencer, il caso Ferragni…
«Non solo, se ci pensi, per vincere il talent, il game show o il Grande Fratello, se cominci a raccontare che sei stato bullizzato, che tuo padre non ti voleva bene, che sei orfano di mamma e via dicendo, che sono poi cose che ti hanno fatto diventare quello che sei, vinci il programma. Se ci pensi, quando enunci una disgrazia, il pubblico ti premia, perché, e qui faccio il filosofo del linguaggio, nel momento in cui racconto una disgrazia, stabilisco una gerarchia tra me e chi mi ascolta, nel senso che io ho la mia disgrazia e l’altro no, quindi tu hai il potere di risanarmi, perché dandomi il tuo voto, in qualche modo mi risarcirai; a quel punto, siccome il potere seduce tutti, io ti voto, perché così dimostro di essere potente e posso risarcirti. Questo è il concetto, spero non troppo complicato».
È un concetto complesso, ma che si inquadra perfettamente all’interno di quella che è l’economia generale di questo genere di programmi. Quindi, alla fine questa parte oscura c’è o non c’è..
«Non solo c’è, ma chiunque di noi ce l’ha e quello che ci salva la vita è il coraggio, la capacità e la tenacia, con cui prima si accetta questa parte oscura e poi si va a guardare dentro, perché se noi nascondiamo sotto il tappeto la spazzatura, non ne verremo mai fuori».
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Antonella Boralevi, quali sono le tue speranze e le tue paure?
«Vedo un Domani positivo. Io di base sono una persona ottimista e penso che il nostro scopo è di rovesciare il tavolo, non con la violenza, ma con dei comportamenti che rispondono al male, operando il bene; questo, perché il bene imprevisto, davvero cambia l’interlocutore e il mondo intorno a noi.Credo profondamente che sia l’unica strada, ovvero praticare il bene quando la gente si aspetta che tu gli dia un pugno, fagli un sorriso…è la migliore arma per costruire il futuro».
Intervista esclusiva a cura di Simone Intermite