Qualche mese fa è stato pubblicato “God of War: Ragnarok”, un mega-ultra-super titolone che prometteva la luna. E dà lì è stata tutta in discesa: gioco dell’anno, premi e tutto il circo relativo al caso.
A livello di gameplay non è niente di nuovo: open world, meccaniche di crafting, esplorazione e combattimento. E’ un gioco perfettamente godibile e le animazioni e la grafica sono di gran livello. Piantare un ascia nel cranio di un nemico non è mai stato così soddisfacente.
Ma c’è un altro aspetto di God of War che voglio affrontare e che mi dà la scusa per affrontare un argomento più ampio: la storia.
Che in realtà è una cosa in comune con tutti i giochi tripla A degli ultimi anni: Horizon, Cyberpunk, Forspoken, Hogwarts: Legacy, e come scordare The Last of Us e il sempre presente Assasin’s Creed (non so quale, ma ce ne è sempre uno in giro). Tutti questi titoli sono affetti da una malattia cronica.
Questa malattia si chiama serietà. O se preferite: “Storie-per-adulti”. Tutti questi giochi non solo se la cantano e se la suonano con una grafica noiosamente realistica, ma anche con una storia che vuole essere “tragica” e “matura”, con personaggi che pretendono di essere “credibili”.
E sapete una cosa? Tutta questa serietà sta rovinando gravemente i videogiochi in generale.
Dopo “The Last of Us” (dove ricordiamo il protagonista “Joel”) si è scatenata un epidemia di “protagonisti maschili stile papà barbuto e depresso”. Il che si traduce con l’archetipo di un brubero e rude uomo con un figlio/figlia da proteggere ed educare a suon di grugniti, battute tetre e nichiliste e l’immancabile rapporto con la natura selvaggia.
E dalla parte dei protagonisti femminili andiamo pure peggio: dopo Horizon, l’eroina del titolo Alhoy ha lanciato una ridda di personaggi con umorismo acido, difficoltà o impossibilità a instaurare rapporti con gli altri (la scusa di ciò è la pretesa di riflettere una mentalità complessa e diffidente, ma il risultato non è altro che una bisbetica sociopatica), ora mai questi “personaggi femminili” sono diventati un classico.
Ma tutti questi bei personaggi si scontrano con un ostacolo impossibile da aggirare se parliamo di videogiochi.
I videogiochi sono un media estremamente interessante, che possono raccontare storie straordinarie se le potenzialità che offrono sono messe a frutto.
I videogiochi sono nati, a livello di immaginario narrativo, calcando le orme e l’ispirazione della cultura pop anni 80′. C’è una grande componente visiva che gioca un ruolo fondamentale (non a caso si chiamano “video”-giochi, eheh), prendete i primi titoli sparatutto come Doom o Duken Nuken. L’ispirazione è presa a piene mani dal cinema d’azione hollywodiano di quegli anni (e pure quelli dopo): Rambo, Predator, Alien, Arma Letale etc…
Gli immersive-sim o i giochi horror trovano le loro fondamenta in titoli come “l’alba dei morti viventi” e tutto il magnifico phanteon di film gore e splatter più che in qualche thriller psicologico alla Dario Argento.
Se poi ci spostiamo in un territorio più “family-friendly” troveremo personaggi immediati, cartooneschi e ironici: come Spyro the Dragon, Crash Bandicoot e la Star Superma dei videogiochi: Super Mario.
E come dimenticare la fenomenale sequela di giochi picchiaduro come Mortal Kombat, Tekken, Dead or Alive… tutti giochi il cui brodo primordiale sono i film di arti marziali di Jackie Chan, Bruce Lee e Chuck Norris.
Le storie videoludiche dal tono più tragico e di gran successo sono derivate da titoli che non tentano di trattare se stessi come film, ma che le costruiscono partendo dal gioco stesso. La saga di Dark Souls, con una storia triste che più triste non si può, è un ottimo esempio (eppure riesce ad essere al tempo stesso estremamente divertente, pensa un pò). Anche Devil May Cry, seppur dal tono bombastico e rockettaro, aveve le sue note malinconiche, e tutto andava a sostenere la presenza e il carisma dell’eroe ammazzademoni del titolo.
Ci sono tanti altri esempi (non abbiamo toccato titoli Rpg fantasy come Arcanum e Baldur’s Gate) ma il senso è lo stesso: i videogiochi devono abbracciare la loro natura, non tentare di essere qualcosa che non sono.
E l’ossessione di molte grandi aziende di presentare e concepire i proprio titoli come fossero film della Marvel ha provocato, nel pubblico, un sentimento di scetticismo e distanza (poiché se un trailer di un videogioco te lo presenta come un film allora il videogioco su cosa cavolo sarebbe?)
In mezzo a tutto questo, come se non bastasse, non si può non andare a toccare l’argomento “grafica realistica”. Sarò sincero: la grafica realistica è noiosa. La realtà è noiosa. Un media come quello videludico si merita di meglio. E questa ossessiva ricerca di “realismo” sta rovinando il tono generale dell’industria. Perlomeno a livello artistico.
A mio parere i veri eredi della narrativa videoludica di oggi sono da ritrovare in titoli che non si sono fatti problemi a presentare uno script comico, demenziale o semplicemente cartoonesco.
High-Fi Rush ne è un esempio e se volete un tipo di comicità più per “adulti” allora consiglio High on Life, scritto e sviluppato da Justin Rolland (Co-autore dello Show “Rick and Morty”).
I videogiochi sono una cosa seria, e allora smettiamola di prenderli sul serio, perché non hanno mai fatto niente di male per meritarselo.
Francesco Viglione