Lo scrittore pakistano Mohsin Hamid ha scritto: “Nonostante sia tradizionalmente associato con la fine dell’estate e l’imminente arrivo dell’autunno, settembre a me è sempre parso un mese di inizi, una sorta di primavera”.
Quest’anno più che mai ci auguriamo tutti che settembre sia l’incipit di un capitolo bianco, dedicato alla scoperta di quella nuova normalità di cui tanto retoricamente si parla, ma che concretamente ancora ci sfugge. Diciamo che, per il momento, l’Italia incredibilmente non se la sta cavando affatto male. Gli uffici si stanno ripopolando, le scuole stanno riaprendo e sulla cartina dello stivale non si vedono zone rosse.
Naturalmente per riappropriarsi di una parvenza di normalità, l’Italia (e soprattutto Milano) non poteva rinunciare all’evento che ha fatto del made in Italy un fenomeno mondiale. La Milano Fashion Week. Alla faccia di chi la dava per morta o moribonda, pronta a cedere il passo alla rampante Tokyo, e di chi aveva iniziato a guardarla con superiorità facendo faziosi confronti con gli eventi parigini. La Milano Fashion Week è voluta tornare fortemente, e l’ha fatto con un palinsesto molto più ricco di quello delle “colleghe” New York, Parigi e Londra, complice anche una parabola dei contagi momentaneamente più piatta. Sessantaquattro sfilate, di cui quarantuno digitali e ventitré dal vivo, hanno scandito questa versione phygital (physical + digital) della settimana della moda milanese, che ha però avuto ben altri obiettivi rispetto alla mera presentazione delle collezioni PE21.
Con un totale di centocinquantanove appuntamenti a calendario, la moda italiana ha voluto sfruttare l’occasione per riflettere sui temi caldi del 2020, facendo così seguito con i fatti alle incoraggianti elucubrazioni dei mesi del lockdown, che invocavano una moda in grado di interpretare le ambizioni e le ferite di una società che sta mutando.
Le collezioni PE21 delle maison italiane si sono dunque spogliate della elitaria e fastosa spregiudicatezza degli anni precedenti e ci hanno mostrato i frutti di riflessioni più intime e pregnanti, maturati con la quarantena e prefigurati nelle messa in discussione delle regole dell’industria.
Ogni brand ha dunque deciso di raccontare le proprie conclusioni in modo personalissimo, tramite modalità e temi spesso nuovi per una fashion week. Ecco dunque che Prada non si limita a portare in scena la sfilata virtuale “Dialogues”, ma propone al pubblico una vera e propria “chiacchierata” tra lady Miuccia e Raf Simons, alla prima prova come co-direttori creativi del brand meneghino.
Il pubblico ha avuto così modo di vedere e ascoltare i due mentre discutevano le intenzioni creative alla base dello show appena trasmesso, approfondendo concetti quali la “Prada-ness”, il rapporto fra uomo e macchina e soprattutto il concetto di “look-uniforme” su cui costruire o decostruire un’intera collezione. Nel segno del dialogo digitale si è mosso anche Giorgio Armani, che ha debuttato con il videosfilata “Building Dialogues” di Emporio Armani. Un corteo eterogeneo di modelli, ballerini e celebrità (che strizzano l’occhio ad un pubblico giovane) si muove con sinergia quasi robotica, occupando gli spazi essenziali e urbani del quartier generale di Via Bergognone a Milano.
Il video, di gusto futuristico diretto da Leonardo Emede e Nicolò Cerioni, vuole essere un gesto simbolico a sostegno dei lavoratori delle arti, in particolare musica, danza e recitazione: una categoria particolarmente penalizzata dai mesi di lockdown che tuttora stenta a ripartire. Si tratta di un ottimo antefatto al vero apice della settimana della moda: Re Giorgio s’incorona da solo nell’intimità del proprio teatro, e lo fa in televisione, in prima serata di sabato sera.
Non ci poteva essere nulla di più nazional-popolare di questo. Giorgio Armani, con la sua “Timeless Thoughts”, ha portato a compimento i pensieri e le riflessioni della quarantena, quando parlava alla stampa della necessità della moda di riavvicinarsi alla vita vera, e ha invitato il grande pubblico italiano alla propria sfilata. Introdotti da un documentario raccontato dalla voce fuori campo di Pierfrancesco Favino, i look di “Timeless Thoughts” sono apparsi davvero come pensieri senza tempo che reinterpretano il più classico stile Armani, abbracciati da una platea solo apparentemente vuota. Un gusto democratico dunque, che si è ritrovato anche durante le passerelle di quei marchi che hanno deciso di sfilare in presenza del pubblico. Tra mascherine, distanziamento e ingressi contingentati, la gestione della quota umana è stata tanto efficiente da valere il plauso del sindaco Sala.
Così Valentino lascia i palazzi del centro storico milanese in favore delle Fonderie Macchi, in zona Bovisa, e popola la propria passerella non di supermodelle e volti noti, bensì di giovani ragazze e ragazzi “comuni”, scelti in due mesi di casting in giro per l’Europa. La scelta, che è stata tacciata da alcuni di essere una manovra di marketing senza futuro, si è comunque concretizzata in uno show molto giovane, reale, più vicino alla sensibilità del pubblico, che normalmente non siede alle sfilate, ma che sbircia il fashion system attraverso lo spioncino di Instagram.
E chissà che vedere più spesso volti normali non ci aiuti, col tempo, a rieducarci ad una bellezza che non deve essere per forza ideale per definirsi tale. Lo stesso fil rouge d’inclusività viene ripreso dalla maison Versace, che non ha sfilato a Milano bensì a Versacepolis, una sorta di Atlantide del pret-à-porter popolata da creature marine psichedeliche di ambo i sessi. Tra di essi ha spiccato (Irina Shayk a parte, ca va sans dire) una dirompente Precious Lee, che non è stata semplicemente sacrificata all’altare del politically correct in quanto aliquota di colore e oversize, ma che (insieme alle colleghe Ava Claire e Jill Kortleve) ha rubato la scena, con un carisma che solo chi sta rompendo il soffitto di cristallo riesce a sfoggiare.
Questo climax di gioia ed estrosità è stato portato al culmine, neanche a dirlo, da Dolce&Gabbana. La collezione si chiama “Patchwork Siciliano”, ma il nome è riduttivo: si tratta della rivisitazione di una collezione del 1992 che a sua volta si ispirava agli anni’70. È dunque un meticoloso lavoro d’archivio, di moda che riparla di se stessa, raggiungendo un risultato che ha del multietnico, del carnevalesco e del punk. In questo modo Dolce&Gabbana ci ricordano che, riscoprendo le nostre origini e intavolando un dialogo con ciò che è diverso si può sopravvivere a qualsiasi cosa, persino al 2020. Infine, a riprova del fatto che la moda vuole farsi luogo di riflessioni ancora troppo taciute al di qua dell’Atlantico, è d’obbligo menzionare il fashion show digitale “We are Made in Italy”, organizzato dal collettivo Black Lives Matter in Italian Fashion, nato con lo scopo di richiedere maggior diversità e la fine delle discriminazioni in seno alla moda italiana. Cinque designer di colore, scoperti da Michelle Ngonmo, fondatrice dell’Afro Fashion Week, hanno avuto modo di presentare le proprie creazioni abbracciati degli affreschi settecenteschi di Giambattista Tiepolo a Palazzo Clerici, e lo show è stato trasmesso in streaming sui canali digital della Milano Fashion Week.
La direzione creativa è stata di Edward Buchanan e Stella Jean, che ad oggi è l’unica rappresentante nera tra i 113 membri della Camera della Moda Italiana. L’iniziativa, poco coperta dai media nostrani, ha tuttavia ricevuto l’ammirazione che meritava dalla stampa statunitense, e ci ha ricordato che la moda italiana (memore di numerose gaffe a sfondo razziale) sta però attivamente cercando di autoeducarsi ad una progressiva inclusione della fashion community afro-italiana.
In conclusione: checché se ne voglia dire, per quanto ci si possa godere ad appiopparle l’epiteto di “frivola”, la Milano Fashion Week è stata, al massimo delle proprie possibilità, l’evento culturalmente catartico di cui non sapevamo di avere bisogno e lo scossone di cui non ci credevamo capaci. Ed è così che settembre è diventato davvero il mese dei nuovi inizi, la primavera che ci siamo persi mentre eravamo in quarantena.
Fiorenza Sparatore