Horror Vacui è una locuzione latina che letteralmente significa “terrore del vuoto” e, applicata all’arte, indica l’atto di riempire l’intera superficie di un’opera con una profusione di dettagli estremamente particolareggiati. Fu Mario Praz, critico d’arte italiano vissuto a cavallo fra il XIX e il XX secolo, ad applicare per primo questa espressione all’arte, per indicare l’atmosfera soffocante dell’arredo di epoca vittoriana. Ripercorrendo la storia dell’arte e del costume è possibile vedere come il manifestarsi dell’ horror vacui sia un tema ricorrente: dai manoscritti miniati dell’arte barbarica alto-medievali, passando per la non convenzionale Art Brut degli anni ’40, sino ad arrivare al pop surrealism californiano degli anni ’70, la necessità di riempire il vuoto si è declinata in modi diversi rimanendo sempre uguale a se stessa.
Ad oggi, il vacuum che sentiamo la necessità di colmare ha perso la sua accezione fisica assumendo quella comunicativa. Potrà sembrare un cliché, ma il bisogno di essere sempre connessi permea ciascuno di noi e, dal momento che la società non è che la somma delle nevrosi della collettività, l’imperativo categorico dell’epoca in cui viviamo è di comunicare costantemente. Il periodo di quarantena che ci siamo trovati ad affrontare ne è stata la prova conclamata. Messi davanti alla possibilità di isolarci non solo fisicamente ma anche mentalmente, rimanendo “soli con i nostri pensieri” in una quotidianità cristallizzata, abbiamo cortesemente declinato l’offerta. Dunque ci siamo lasciati volontariamente bombardare da allenamenti online, dirette sui social, tutorial su come impastare qualsiasi cosa ci capiti a tiro e quant’altro.
Tralasciando se questo sia sano o meno, è interessante riflettere su come questo lockdown abbia mostrato la potenzialità di certe modalità comunicative e l’obsolescenza di altre. Di queste ultime sono un esempio lampante le onnipresenti influencer. Private del loro stile di vita esclusivo e costrette in quattro mura (per quanto nel centro di Milano con vista sul Duomo), le influencer sono come Superman davanti alla cryptonite: perdono il loro carisma, il loro fascino e di conseguenza la loro capacità di persuasione a fini commerciali.
Naturalmente non tutti gli esemplari della specie si assomigliano: tra una Chiara Ferragni che lancia un fundraising milionario in favore della battaglia al Covid-19 e una Chiara Nasti che sbaglia le parole dell’inno d’Italia mentre si dimena in salotto il passo, più che lungo, è chilometrico. Ma la falla nel sistema è sempre la stessa: la mancanza di contenuti. Contenuti che prescindano dai balletti di TikTok e dagli squat a ritmo di raggaeton, s’intende. Quindi chi ha saputo realmente sfruttare l’infinito potenziale della comunicazione digitale? Contro ogni aspettativa, un modello virtuoso è stata la moda italiana. Alcune maison hanno avuto il merito di intuire la necessità di proporre contenuti effettivi, facendo di arte, cultura e musica il nuovo alfabeto della comunicazione rivolta al consumatore-spettatore. Certo, non che l’abbiano fatto per amor d’intrattenimento: nell’epoca della comunicazione ad ogni costo il silenzio radio equivale ad un harakiri commerciale e l’obiettivo è rimanere rilevanti agli occhi di un cliente che, se si annoia, archivia e passa ad altro. In ogni caso il risultato finale si è rivelato, nella maggior parte dei casi, di inusitato spessore, venendo declinato in modi diversi dai maggiori brand.
Prada ha organizzato le Possible Conversations, una serie di colloqui trasmessi in diretta su Instagram tra scrittori, direttori creativi, attori e filosofi, per riflettere su come il Coronavirus ci stia costringendo a ripensare il cinema, la moda e la cultura. Per il momento le conversations sono state cinque, tra cui spicca quella tutta italiana dal titolo L’Amore ai tempi del Coronavirus. I protagonisti d’eccezione sono stati Emanuele Coccia, scrittore, filosofo e docente di Storia e Teoria della dottrina cristiana all’EHESS di Parigi, e Francesco Vezzoli.
L’ispirazione per questo dibattito è stata tratta dal nuovo progetto di Vezzoli in collaborazione con la Fondazione Prada, Love Stories, un’esplorazione della comunicazione dei sentimenti attraverso i social network. L’idea di una serie di conversazioni piace anche a Gucci, che in occasione della quarantena ha rispolverato e arricchito i GUCCI Podcast. Il format, in realtà lanciato già nel 2018, ha come leit motiv l’intersecarsi di moda, arte e lifestyle. Il punto di vista è quello di personalità di spicco della maison fiorentina in dialogo con celebrità e artisti di fama mondiale. Particolarmente interessante l’episodio con Marco Bizzarri, CEO di Gucci, e Massimo Bottura, chef stellato a capo delle Gucci Osterie di Firenze e Beverly Hills.
Incredibilmente i due erano compagni di banco ai tempi della scuola, e oltre a riflettere sul rapporto fra moda e ristorazione, regalano agli ascoltatori anche alcuni gustosi aneddoti d’infanzia. Un altro dialogo d’eccezione è sicuramente quello fra il direttore creativo Alessandro Michele e Sir Elton John: due personalità poliedriche ed eccentriche che riflettono sul rapporto fra moda, arte e collezionismo. Tutt’altra strada è stata percorsa da Valentino, che durante la quarantena ha coltivato una comunicazione più vicina all’intrattenimento. L’appuntamento settimanale #ChezMaisonValentino consiste in una serie di performance che spaziano dai concerti acustici alle letture di poesie, trasmessi in diretta sul profilo Instagram ufficiale.
La caratura artistica degli interpreti, sicuramente d’eccezione, ben s’intuisce ripensando alla lettura della poetessa Rupi Kaur e o all’esibizione acustica di Alicia Keys. A questo proposito, la musica si è confermata linguaggio privilegiato all’epoca del Covid-19, come si evince dall’entusiasmo con sui è stata accolta l’iniziativa forse più amata dal pubblico. I maggiori brand e personalità del mondo della moda sono approdati su Spotify, creando delle playlist per comunicare l’essenza della propria identità artistica e mantenere vivo il ricordo dei gloriosi momenti in passerella. Si tratta di un progetto certamente meno cerebrale di altri, ma senza dubbio fruibile più facilmente dal “grande pubblico” dei consumatori. Particolarmente ben riuscito è l’esperimento di Philosophy by Lorenzo Serafini, che comprende varie raccolte di brani adatte ad ogni tipo di umore e di età.
Dalla playlist Hard Romance che celebra i fasti dell’underground anni ’90, alla raccolta Daydreaming pensata appositamente per la meditazione, passando per Madonna e gli Smiths, Philosofy by Lorenzo Serafini solletica la nostalgia degli ascoltatori più maturi e stimola i giovanissimi alla scoperta dei mostri sacri della musica del ‘900. Coccolando il pubblico con i grandi brani che hanno plasmato l’identità di intere generazioni, le maison e i loro stilisti scendono dall’Olimpo del fashion per ritrovare la propria dimensione umana, raccontandoci che anche loro si dimenavano in sordidi locali al ritmo di Smells Like Teen Spirit. I casi appena citati sono sicuramente gli esempi migliori, ma sono anche soltanto alcune delle numerose iniziative che sono riuscite a fondere efficacemente forma e contenuto. Alla luce di tutto ciò è possibile sbilanciarsi in alcune considerazioni.
In primis, che la nostra necessità di colmare l‘horror vacui comunicativo è corrisposta da un bisogno altrettanto impellente delle aziende di rimanere in costante collegamento con il consumatore finale, e che queste due esigenze si compenetrano e fomentano a vicenda. In secondo luogo che il concetto di comunicazione come mero incitamento al consumo è ormai superato in favore di un dialogo con il pubblico più sottile ed elegante. E da ultimo possiamo trarre la considerazione forse più incoraggiante di tutte. Che questa pandemia non ci sta cambiando, ci ha già cambiato, e ci ha ricordato che volenti o nolenti abbiamo bisogno di sostanza nei contenuti per sopravvivere alla convivenza con noi stessi. La speranza dovrebbe essere quella che la crisi che stiamo vivendo riporti finalmente in auge una cultura della comunicazione che veicoli riflessioni più utili e stimolanti, a scapito di personaggi fasulli e bidimensionali che sono la negazione di tutto ciò che ci arricchisce come persone. Altrimenti continueremo a tentare di combattere il nostro horror vacui generazionale riempiendolo con altro insulso e deprimente vuoto.
Fiorenza Sparatore