«La mia terra, la Sicilia, ho dovuto lasciarla presto perché per anni ho girato l’Italia in auto per suonare ovunque ci fosse la possibilità». La chiacchierata con Mario Biondi inizia così ripercorrendo le tappe di una gavetta musicale, costituita da tasselli preziosi e faticose salite, distante dai clamori facili delle piattaforme streaming e dei social network dall’hashtag facile. Quella dell’autore di “This what you are” è una carriera da artigiano della musica che si pone il nobile obiettivo di contaminare le frontiere geografiche e culturali con una voce potente, che vira dal soul al funky, portando l’America nel cuore unendo, su un asse immaginario e visionario l’anima di Memphis, Rio De Janero, Parigi e Roma con un identità precisa costituita da mix di saggezza e competenza. Il suo ultimo singolo intitolato “Sunny Days” continua a percorrere questa strada con un duetto con Cleveland P. Jones, l’americano astro nascente del jazz, nativo di una piccola città chiamata North, in South Carolina, vincitore del premio New Artist of The Year di SoulTracks. Noi di Domanipress abbiamo avuto il piacere di ospitare nel nostro salotto virtuale Mario Biondi per parlare con lui del nuovo progetto e di musica che unisce il mondo.
Il tuo nuovo singolo “Sunny Days” è in duetto con l’astro nascente del Jazz Cleveland P. Jones. Com’è nata questa collaborazione?
«Come tutte le belle occasioni è stato un fortunato incontro nato per caso, ho conosciuto prima Mario Fanizzi, un giovane produttore italiano che per tanti anni ha lavorato a Los Angeles con nomi come Carlos Santana, Tom Jones e Katy Perry. Lui mi ha fatto ascoltare il provino di “Sunny Days” scritto insieme a Cleveland Jones. Appena ho sentito la voce di Cleveland ne sono rimasto folgorato, ho avvertito subito una connessione speciale…è raro che questo accada. Nel brano due voci diverse si incontrano per raccontare la stessa storia incontrandosi in un dolore che accomuna… fin dall’inizio del testo canto: “Che cosa sei venuto a fare qua ancora, vuoi farmi male di nuovo? In questa vita non c’è più spazio per te”…sono parole forti».
A proposito di duetti all’inizio della tua carriera hai avuto l’occasione di suonare con Ray Charles…cosa ricordi di quei momenti?
«Si, in realtà ho avuto la possibilità di aprire un suo concerto in Sicilia quando ero solo un ragazzino, il nostro incontro si è limitato alla mia possibilità di assistere al suo concerto dal palco. Ricordo che mi sembrava di avere davanti un Dio, è stata un emozione indimenticabile, lui è un vero mito ed un maestro della musica».
Dalla Sicilia per fare musica sei dovuto emigrare negli Stati Uniti, Il tuo è stato un percorso particolarmente difficile…
«La Sicilia ho dovuto lasciarla ben prima di approdare in America, per anni ho girato l’Italia in auto per suonare ovunque ci fosse la possibilità, con molto impegno e sacrifici, la vera gavetta posso dirti che è stata fatta nella nostra bella terra, quando sono arrivato negli Stati Uniti ero già più grande e consapevole, ho portato oltre oceano un progetto discografico più concreto».
In Italia rispetto agli altri paesi la musica Jazz è rimasta confinata ad un pubblico di nicchia nonostante i tanti Festival in giro per lo stivale…come mai?
«Girare il mondo mi ha dato modo di capire che, per fortuna, la musica Jazz non è così di nicchia come può apparire, il pubblico è curioso e attento e ha voglia di ascoltare tutto, non solo la musica pop. Il problema oggi direi che è più discografico ed ovviamente radiofonico; per seguire le vendite i grandi networks e le piattaforme streaming propongono pochi generi musicali e per quanto li riguarda fanno anche bene il loro lavoro perché alla fine sono industrie che hanno come obiettivo primario il guadagno. Però questo alla lunga è un meccanismo molto limitante perché se ci pensi è come se ci dicessero che si può bere solo succo di frutta, te lo propongono così tanto e in modi diversi che non sai più se puoi bere ancora acqua…».
Dopo il successo del singolo “This is what you are” sei stato accolto favorevolmente nell’universo pop della musica Italiana con collaborazioni con colleghi come Renato Zero, Anna Tatangelo e Ornella Vanoni solo per citarne alcuni…Con quale altro artista ti piacerebbe collaborare?
«Tutte queste collaborazioni sono state per me un sogno che si avverava, ho grande stima ed affetto per i miei colleghi ed anche oggi continuo a sognare in grande. Amo così tanto la musica in tutte le sue sfaccettature che mi immagino duetti quasi impossibili, ti confesso che sogno un duetto con i Red Hot Cilly Peppers. Lo avresti mai detto?».
George Gerwishwin disse “La vita somiglia molto al jazz… è meglio quando si improvvisa.” Cos è per te il Jazz?
«Il Jazz è viaggiare sul palco senza rete di sicurezza».
Sei costantemente impegnato in tournèe in Italia e sopratutto all’estero, la tua è una famiglia particolarmente numerosa in controtendenza con il trend demografico; come riesci a coniugare vita privata e vita professionale?
«Non è semplice seguire otto figli, io sono un padre che ama partecipare attivamente all’educazione e alla loro crescita. Fortunatamente questo lavoro, che mi tiene fuori casa per giorni, mi permette anche di stare a casa in altri momenti senza orari d’ufficio e di ritagliarmi quindi degli spazi dedicati e importanti per la mia famiglia, ma non posso negare l’importanza dell’aiuto della mia compagna».
Ritornando alla musica recentemente Enrico Ruggeri ha affermato che per fare innovazione in capo musicale oggi è necessario essere ricchi…Come vedi l’industria musicale italiana?
«È un po’ il discorso che facevamo prima, oggi le case discografiche sono miopi perché investono solo in un genere musicale, e se tu vuoi fare altro devi produrtelo da solo, in autonomia e con grandi sacrifici economici. Io però sono fiducioso perché l’importante è concentrarsi sempre nel realizzare qualcosa di bello, perché la bellezza trova sempre il modo di superare barriere commerciali per arrivare alle persone».
La fruizione della musica oggi passa inevitabilmente dalle piattaforme digitali, che rapporto hai con questo modo di fruire la musica? Per ascoltare il Jazz meglio il vinile o lo streaming?
«Non c’è dubbio che qualitativamente il digitale fa perdere un po’ di brio, soprattutto se ascoltiamo la musica in maniera occasionale dagli smartphone che appiattiscono tutte le diversità e le sfumature di suono. Però c’è sempre un risvolto della medaglia positivo, la possibilità di avere un archivio infinito di brani è comunque stimolante, ti ritrovi ad ascoltare artisti di tutto il mondo e a scoprire delle perle per caso che diversamente in un negozio di dischi, come quelli che c’erano una volta, ignoreresti. Il digitale ti aiuta a scoprire generi ed artisti diversi tra loro, anche poco noti, allarga gli orizzonti».
Il tuo ultimo album pubblicato l’anno scorso si intitola “Rio”, tu canti in Italiano, portoghese ed Inglese qual’è la lingua che preferisci per esprimerti artisticamente?
«L’ultimo album “Brasil”, mi ha regalato la possibilità di esprimermi in modi diversi, compreso il francese che onestamente parlo ed utilizzo pochissimo. Non c’è una lingua che preferisco in assoluto, ogni canzone ha il suo stile, il suo vestito e si sposa con un determinato idioma, ci sono brani che in italiano non renderebbero come in inglese e viceversa. Nell’ultimo lavoro il brasiliano per esempio era fondamentale per raccontare la storia di certi brani in maniera più intima».
Come ultima domanda parafrasiamo sempre il titolo del nostro magazine e chiediamo come vede il “Domani” Mario Biondi, quali sono le tue speranze e le tue paure?
«Per il Domani mi auguro serenità per tutti. Meno dita puntate e più mani aperte per aiutare».
Simone Intermite